Il caso Garlasco riapre il dibattito su scienza, tecnologia e ruolo del giudice

Un elemento cruciale per la soluzione del caso Garlasco è la capacità delle tecnologie di genetica forense di produrre risultati attendibili. Ma è anche importante che il giudice sia consapevole del modo in cui vengono utilizzate di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su MIT Technology Review Italia

Fin da quando, negli anni’80, Sir Alec Jeffreys mise le proprie ricerche sui marcatori genetici al servizio della polizia inglese per risolvere un caso di omicidio, la genetica forense è stata uno strumento fondamentale nella cassetta degli attrezzi di inquirenti e avvocati difensori. Nel corso del tempo metodi e strumenti sono diventati sempre più precisi, ma le “DNA war” combattute sin dagli albori nelle aule giudiziarie americane sull’affidabilità dei risultati rappresentano ancora un esempio chiaro di una necessità fondamentale per garantire un uso sensato della genetica forense: la capacità delle parti di capire i risultati che vengono loro mostrati, anche —e specie— se non coincidono con l’idea che l’inquirente o il giudice si sono fatti della vicenda processuale.

Un caso paradigmatico, in Italia, è lo stupro della Caffarella, commesso nel 2009, a proposito del quale vale la pena di riportare testualmente le dichiarazioni dell’allora questore di Roma riportate nell’articolo Stupro Caffarella, “L’accusa regge” pubblicato su Repubblica.it del 4 marzo 2009: Siamo stati noi a richiedere il Dna – ha sottolineato il questore – perché noi per primi vogliamo trasparenza e siamo stati noi a prelevare la saliva al più giovane dei due rumeni fermati subito dopo la sua confessione – ha continuato – Pur ammettendo che il Dna è la prova regina crediamo ancora nella bontà di tutto l’apparato accusatorio.  In altri termini, l’attaccamento al teorema investigativo prevale sulla prova scientifica nonostante questa escluda la riferibilità delle tracce biologiche ai sospettati.

Un altro caso altrettanto paradigmatico, definito come il più grave errore giudiziario nella storia del Giappone, è quello che ha riguardato Hakamata Iwao, che ha trascorso quasi cinquant’anni nel braccio della morte di una prigione giapponese per essere poi scagionato nel 2025 grazie a nuove tecniche di analisi genetica.

Questi due esempi, pur lontani nel tempo e nello spazio, sono accomunati dall’incapacità delle parti del processo —e del giudice in particolare— di sviluppare un approccio critico rispetto al ruolo della scienza nel processo e in particolare rispetto alla tenuta logica dei risultati che vengono presentati nel dibattimento.

Per approfondire questi aspetti, MIT Technology Review ha incontrato Giuseppe Gennari, Giudice nel tribunale di Milano e autore di monografie e articoli sui temi della genetica forense e della prova scientifica, al qual ha chiesto se, e in che modo, la vicenda Garlasco assuma un valore paradigmatico.

Quali strumenti sono stati utilizzati nell’analisi genetica del 2014 e quali sono le loro limitazioni tecnologiche?

La perizia del 2014 ha impiegato il kit di estrazione Prepfiler Forensic DNA Extraction Kit (validazione 2006), ancora valido ma non ottimale. La fase di quantificazione è stata omessa, probabilmente per l’assenza di Real Time PCR, già allora uno standard consigliato. Per l’amplificazione si è utilizzato l’AmpFlSTR Yfiler PCR kit, in grado di amplificare solo 16 loci Y-STR, mentre dal 2013 era disponibile il PowerPlex Y23, che ne amplifica 23 con maggiore sensibilità e accuratezza. Il sequenziamento è stato eseguito con un ABI PRISM 310, un capostipite della sua classe (1995), superato da modelli come il 3500 Genetic Analyzer (dal 2010), dotato di maggiore throughput, sensibilità e riduzione del background noise.

Perché la scelta della strumentazione influisce in modo critico sull’affidabilità dell’analisi del DNA?

L’efficacia di un’analisi genetica dipende da diversi parametri: sensibilità, riproducibilità, risoluzione analitica e riduzione degli artefatti. Strumentazioni obsolete generano maggiori rischi di allele dropout, stutter peaks e profili incompleti. Inoltre, kit moderni adottano chimiche di reazione più robuste e ottimizzate per campioni degradati o misti, migliorando la probabilità di ottenere profili interpretabili anche in condizioni complesse.

Quali standard internazionali erano già in vigore nel 2014 per garantire la qualità dei laboratori di genetica forense?

La Decisione GAI 2009/905 del Consiglio UE imponeva già che i laboratori forensi attivi nell’analisi del DNA fossero conformi allo standard ISO/IEC 17025. In Italia, la legge n. 85/2009 stabiliva che solo i profili genetici generati da laboratori accreditati potessero essere inseriti nella banca dati nazionale del DNA. Tali norme implicano l’obbligo di validazioni interne, partecipazione a Proficiency Test e uso di SOP (Standard Operating Procedures) documentate.

Cosa si intende per validazione interna e Proficiency Test e qual è la loro rilevanza pratica?

La validazione interna consiste nella verifica in situ dei parametri chiave di ogni metodologia in uso: sensibilità, specificità, ripetibilità e riproducibilità. I Proficiency Test, invece, sono prove cieche fornite da enti terzi, che permettono di valutare la performance del laboratorio su campioni standardizzati. Entrambi sono requisiti fondamentali per il mantenimento dell’accreditamento ISO/IEC 17025 e servono a garantire che ogni risultato analitico sia affidabile e difendibile.

Quali scelte alternative aveva la corte per garantire un’analisi genetica adeguata allo stato dell’arte?

La corte avrebbe potuto affidarsi a uno dei tre laboratori accreditati già presenti in Italia nel 2014, oppure imporre l’obbligo di utilizzare strumentazione conforme agli standard internazionali. Avrebbe inoltre potuto richiedere l’evidenza della partecipazione a Proficiency Test, oppure consultare un comitato scientifico esterno per validare la scelta del perito. L’approccio adottato, invece, si è basato su una fiducia personale priva di controlli oggettivi, elemento che ha minato la robustezza dell’intera perizia.

In termini sistemici, cosa rivela il caso Garlasco sulla cultura tecnologica del sistema giudiziario italiano?

Il caso evidenzia una persistente disconnessione tra il sapere scientifico-tecnologico e la prassi giuridica. La selezione dei periti avviene spesso secondo criteri non tecnici, con scarsa attenzione alla dotazione strumentale o alle certificazioni di qualità. Inoltre, vi è una mancanza strutturale di formazione tecnica tra magistrati e avvocati. Questo porta a una sottovalutazione dei fattori che determinano la solidità della prova scientifica, con gravi ripercussioni sui diritti degli imputati e sulla credibilità del processo.

Questa disconnessione riguarda solo la genetica forense o è un fenomeno più generale?

No, è un fenomeno assolutamente generale e riguarda tanto le prove scientifiche tradizionali, spesso del tutto prive di “scientificità”, che nuove applicazioni presentate come assolutamente affidabili e in verità non verificate in modo rigoroso. Nel caso dell’omicidio di Lidia Macchi, il presunto assassino – poi definitivamente assolto dopo essere stato tre anni ingiustamente in carcere –   è stato condannato in primo grado  sulla base di una perizia psicologica che pretendeva di ricavare la confessione dal testo di una poesia. Poi c’è stato il momento della macchina delle verità, quando diversi tribunali italiani hanno ritenuto di potere decidere chi mente e chi no sulla base di un teste denominato a-IAT. Il problema è che la letteratura scientifica a sostegno del test era quantomeno discutibile, ma i giudici non se ne sono accorti perché non hanno alcuna competenza epistemologica.

E quindi cosa dobbiamo attenderci per il futuro?

Purtroppo nulla di buono. Il magistrato continua a non avere alcuna formazione specifica sul tema della scienza e intendo non su tecniche specifiche, ma sulla metodologia scientifica, su che cosa definisca un dato come verificato o meno, sui criteri che la scienza utilizza per misurare se stessa. La scuola che si occupa dell’aggiornamento dei magistrati italiani non sembra efficace. Si limita a offrire un corso annuale non obbligatorio, rivolto a qualche decina di magistrati, affastellando esperti che parlano di questa o quella prova. Ma non esiste un programma obbligatorio e strutturato che educhi il magistrato alle regole di base della scienza. E questo è grave perché in alcuni settori  – e di nuovo torno alla genetica – il livello di complessità di determinati accertamenti è tale da essere già del tutto al di fuori di ogni possibilità reale di controllo del magistrato di oggi.  Quando il magistrato perde il controllo della decisione è la legittimità stessa del sistema giudiziario a essere in discussione.

 

Foto di copertina: un sequenziatore esposto nel museo dell’Expo 1985 di Tsukuba © 2025 Andrea Monti

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