Hard Times. Le nuove guerre e la difesa europea

Il mio contributo all’analisi multidisciplinare coordinata da Alberto Pagani ha riguardato la  crisi del diritto come strumento di regolazione dei rapporti internazionali, un tema centrale nella riflessione geopolitica e  più volte affrontato anche sulle colonne di Formiche.net.

Il capitolo che mi è stato affidato sottolinea come la globalizzazione e i progressi tecnologici abbiano provocato un cambiamento fondamentale nella governance mondiale, passando dal rule of law al rule by law.

In sintesi, la tesi sulla quale ragiono è che la percezione storicamente radicata del diritto come un’entità sacra e inviolabile viene ora sostituita dal ritorno a una visione del diritto come uno strumento malleabile per perseguire agende politiche. Si potrebbe eccepire, con qualche ragione, che in realtà il diritto non è mai stato, necessariamente, uno strumento di realizzazione di fini etici o necessariamente basati su una visione universalistica dell’essere umano. E si potrebbe quindi concludere che, in realtà, il diritto è sempre stato politica, nel senso di strumento di attuazione della volontà delle classi dirigenti, a prescindere dal contenuto valoriale delle norme adottate.

Sia come sia, storicamente, il diritto all’interno dei confini nazionali ha sempre avuto il ruolo di incarnazione delle norme e dei valori sociali, fornendo un quadro stabile per la governance e la risoluzione dei conflitti e rappresentando, nei casi patologici, la frattura fra il potere e i governati.

Tuttavia, questa percezione si affievolisce quando viene estesa alla scena internazionale, dove gli accordi tra gli stati spesso soccombono alle realtà delle dinamiche di potere e degli interessi geopolitici. L’era post-Westfaliana, caratterizzata dal dominio degli stati sovrani, infatti, è ora messa in discussione dall’emergere di un ordine mondiale multipolare e dall’influenza pervasiva delle tecnologie dell’informazione.

Per illustrare la crescente complessità e frammentazione dello scenario attuale è utile far riferimento alla categoria dei “diritti senza stato”, cioè diritti stabiliti attraverso meccanismi politici senza il sostegno di alcuna sovranità nazionale specifica.

Un esempio chiave è la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che —secondo una certa lettura— rappresenta un costrutto centrato sull’Occidente che manca di una reale applicabilità universale. Nonostante le sue nobili intenzioni, i principi della Dichiarazione spesso si scontrano con le realtà culturali e politiche in varie parti del mondo, evidenziando la difficoltà di praticare concretamente un approccio universalista ai diritti umani.

Il fallimento del processo di costruzione della Costituzione europea rappresenta un altro esempio significativo della crisi del diritto nell’ambito dei rapporti internazionali. A parte le complessità politiche ed economiche di un obiettivo del genere, una concausa del fallimento è stata senz’altro l’approccio dall’alto verso il basso adottato dalle élite europee, che hanno tentato di imporre un quadro costituzionale senza un sufficiente coinvolgimento democratico diretto a far maturare il consenso delle popolazioni degli Stati membri. Questa disconnessione, che ancora oggi alimenta le spinte antieuropeiste, sottolinea l’importanza di legittimare le scelte fondamentali per la vita degli Stati tramite la partecipazione democratica alla creazione di una base giuridica sufficientemente robusta per consentire un’azione politica coordinata e in grado di operare su archi temporali che vadano oltre quelli di un solo mandato.

Parallelamente, come evidenziavo, non va trascurato anche il ruolo trasformativo nella modellazione del panorama giuridico svolto dalle grandi aziende tecnologiche.

Aziende come Apple e Twitter (ora, X) hanno unilateralmente definito e applicato norme, come gli standard di privacy e le politiche di controllo dei contenuti, spesso senza l’intervento dello Stato e addirittura prescindendo dal suo ruolo.

Questo fenomeno, che ho definito “tecno-neomedievalismo“, rappresenta un paradigma in cui i giganti tecnologici esercitano poteri tradizionalmente riservati agli Stati sovrani, operando con un grado di autonomia e influenza che consente di definire standard giuridici de facto che svuotano di senso quelli stabiliti dai Parlamenti.

Un terzo aspetto da considerare in un’analisi sulla crisi del diritto e sul passaggio dal rule of law al rule by law è il concetto di “lawfare”.

Il termine lawfare si riferisce all’uso strategico degli strumenti giuridici per raggiungere obiettivi politici o militari, trasformando di fatto il diritto nell’ulteriore componente dell’arsenale di uno Stato. Per quanto, pragamaticamente, efficace, il lawfare porta con sé il (non banale) danno collaterale di minare l’integrità dei sistemi giuridici ed erode la fiducia negli accordi internazionali.

L’uso delle norme come strumenti di realpolitik, infatti, compromette la stabilità e la prevedibilità delle relazioni internazionali. Gli accordi e i trattati diventano (o tornano ad essere) mere suggestioni, soggetti a manipolazioni e reinterpretazioni basate sulle mutevoli dinamiche di potere, come illustra bene un saggio di Deepak Mawar del Department of Public Law and Governance dell’università olandese di Tilburg.

Questo allontanamento dalla centralità del ruolo del diritto mette in discussione i principi fondamentali del diritto internazionale e, dunque, solleva dubbi sulla capacità dell’attuale assetto normativo di affrontare le sfide globali del nostro tempo.

Sarebbe opportuno, ma forse è troppo tardi, riconoscere la necessità di un sistema normativo che torni a un sostanziale rispetto dello stato di diritto adattandosi alle complessità di un mondo multipolare e tecnologicamente avanzato. In questo modo sarebbe possibile mediare tra diversi attori statali e non statali inserendo ulteriori livelli di escalation prima di arrivare, come pure non si può mai escludere, all’ultimo: quello del conflitto dichiarato.

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