Google non dovrà vendere Chrome. Ma non è Chrome a fare il monopolio di Google

Continua la causa antitrust contro Google, ma nel frattempo il giudice di questa causa storica “salva” Chrome che, dunque, non dovrà essere ceduto. Ad essere in vendita, invece, sono i dati degli utenti di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Italian Tech – La Repubblica

L’anno scorso la Corte distrettuale del District of Columbia aveva stabilito di accogliere il merito delle richieste avanzate dal Dipartimento di Giustizia e da altri 38 Stati che sostenevano la violazione, da parte di Google, delle norme antitrust nei servizi di ricerca generici e nella pubblicità testuale generica.

Nello specifico, la Corte ha ritenuto contrari allo Sherman Act (la legge USA sulla tutela della concorrenza) gli accordi di distribuzione esclusivi con browser, produttori di dispositivi e operatori con i quali Google otteneva che il proprio motore di ricerca fosse quello predefinito. Questo, continua la Corte, impediva ai concorrenti di accedere alle ricerche eseguite dagli utenti e dall’accesso ai relativi (meta)dati. Da qui, la decisione di vietare la stipulazione o la prosecuzione di accordi che prevedono l’uso esclusivo delle funzionalità di ricerca, di Chrome, di Google Assistant e di Gemini —la neonata piattaforma AI. È stata invece rigettata la richieste avanzata dai di cedere coattivamente Chrome (su cui avevano manifestato interesse OpenAI e Perplexity —cioè Jeff Bezos) e Android.

Perché Chrome (e Android) sono stati “salvati”

Non è un mistero, fin dai tempi di Internet Explorer, che non tutti i browser sono stati creati uguali. Dunque, la fruibilità di un sito — ma più ancora del servizio che tramite il sito viene veicolato— può essere condizionata dalla scelta di quale browser supportare. Tanto è vero questo che ancora oggi le cose vanno così e le differenze di usabilità possono essere anche molto consistenti.

Gli sviluppatori possono decidere di creare infrastrutture compatibili solo con i browser più diffusi, o una Big Tech può unilateralmente cessare —come accade nel 2020 con la dismissione del supporto di Flash da parte di Apple— il supporto di una particolare tecnologia. È chiaro che quanto più è grande la fetta di mercato del browser, tanto più scelte del genere possono avere un effetto generalizzato e di larga scala dunque la posizione dominante di un browser rispetto agli altri è certamente rilevante in termini di antitrust. Ma, secondo il giudice, non è questo il nodo da sciogliere.

Come scrivemmo su queste pagine, infatti, e come ha rilevato la Corte, il punto non è tanto il software (il cui codice sorgente, peraltro, è liberamente riutilizzabile tanto che ha dato origine a diversi browser de-googleizzati ma perfettamente funzionanti), quanto l’accesso ai dati degli utenti e a quelli generati dagli utenti tramite l’utilizzo dei servizi di ricerca. Dunque, costringere Google a cedere Chrome avrebbe causato un danno irragionevole all’azienda visto che altri rimedi —appunto, quelli che “aprono” l’accesso ai dati degli utenti— soddisfano già le necessità di riequilibrio della concorrenza.

Cosa dovrà fare Google in base a questa decisione

Se avere salvato Chrome è certamente un notevole risultato, le altre prescrizioni imposte dal giudice non sono certo leggere. Se la decisione verrà confermata nei vari gradi di giudizio, infatti, Google dovrà condividere l’accesso ai dati con la concorrenza e non potrà stipulare contratti di esclusiva per le funzionalità di ricerca e per quelle AI con modalità che “tagliano fuori” altri operatori del settore.

Un approccio sensato

A prescindere dal merito e dall’esito finale di questa controversia, vale la pena di evidenziare un elemento interessante di questa decisione che la mette —non solo letteralmente— a un oceano di distanza dagli estremismi ideologici che a volte caratterizzano le pronunce dell’unione europea.

Invece di cedere alla tentazione di adottare i provvedimenti draconiani (pur legittimamente) richiesti dalle controparti, il giudice ha applicato una notevole cautela nel decidere il da farsi. Da un lato ha preso di mira l’esclusività contrattuale e i vantaggi derivanti dai grandi numeri generati dalla condotta di Google ritenuta anticoncorrenziale. Dall’altro, però, non si è spinto ad adottare misure che avrebbero irrazionalmente portato alla ristrutturazione di Google o alla riprogettazione dei suoi prodotti e servizi.

Non che sia impossibile —basta ricordare lo smembramento della Standard Oil— ma non era questo il caso e dunque una misura così drastica non è stata assunta.

Confermata l’assenza di tutela degli utenti

La vicenda giudiziaria è ancora lontana dal concludersi. Google può, infatti, appellare questa decisione e arrivare fino alla Corte Suprema per cui ci vorrà tempo prima di scrivere la parola fine. Tuttavia, una certezza è stata confermata: quella che può essere considerata la più importante azione antitrust contro Big Tech dai tempi di quella promossa nel 2001 a danno della Microsoft, considera (i dati de)gli utenti come un prodotto da spartirsi o una riserva di caccia alla quale accedere in esclusiva o in modo limitato senza che le “prede” abbiano voce in capitolo.

A stretto rigore, il tema è fuori dal perimetro antitrust e dunque non doveva essere trattato in questa sede, tuttavia la questione dati personali non può essere trascurata. Dunque è possibile che le autorità nazionali di protezione europee, se avranno la forza per farlo, possano entrare in gioco e dire la loro sulle decisioni della corte americana.

Sempre che l’amministrazione USA non decida di reagire a quelle che potrebbero essere considerate “ingerenze” nell’autonomia dei giudici e nella libertà delle imprese (USA).

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