Gli effetti di una concezione “di maniera” del diritto alla riservatezza e quello del trattamento dei dati personali stanno per incarnarsi nel più clamoroso errore nella lotta al COVID-19: quello di distruggere (o non raccogliere) i dati di geolocalizzazione dei soggetti contagiati.
La “privacy” può senz’altro essere limitata per interessi superiori, come è toccato alla libertà di espressione (vedi la delibera AGCOM 129-20), a quella di movimento e riunione e a quella di libertà economica. Mentre il GDPR, anche se si applicasse in regime di emergenza, imporrebbe di tutelare TUTTI i diritti e le libertà fondamentali dunque la vita prima di tutto, e non solo la “privacy”.
Distruggere (o non raccogliere) i dati di geolocalizzazione dei contagiati e dunque impedire agli scienziati di studiare non solo gli aspetti strettamente patologici del COVID-19 ma anche quelli legati alla sua diffusione è semplicemente inaccettabile.
L’inesistente “pericolo sorveglianza globale di Stato” da sempre strillato per ogni dove in Italia non dovrebbe impedire alla Scienza – quella Scienza alla quale oggi tutti si rivolgono manco fosse una divinità pagana – la possibilità di continuare studiare.
Il problema, dunque, non è cancellare o evitare di raccogliere i dati COVID-19, ma quello di garantirne la trasparenza di utilizzo e di lasciare gli scienziati liberi di fare il loro lavoro, controllando quello che fanno, invece di privarli – a priori – della possibilità di salvare vite umane.
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