L’accusa di violazione dei diritti d’autore formulata contro uno youtuber che recensisce console per retrogaming trascura i diritti degli utenti di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Italian Tech – La Repubblica
Nonostante il tempo passato, il diritto d’autore su Horace and the Spiders, Jet Set Willy e Atic Atac (per chi giocava con i ZX Sinclair) e tutti gli altri giochi per microcomputer e console che hanno animato infanzia e adolescenza delle generazioni pre-internet è ancora in vigore e dunque il loro sfruttamento economico non autorizzato è punito penalmente.
Quindi sembrerebbe esserci poco da aggiungere all’analisi del caso di Once Were Nerd pubblicata su Italian Tech in relazione all’accusa di violazione del diritto d’autore sui giochi da console degli anni 80-90, se non il fatto che la norma contestata, l’articolo 171-ter della legge sul diritto d’autore non si occupa di software ma di contenuti audiovisivi.
Tuttavia le questioni giuridiche legate al riutilizzo di giochi d’epoca non si esauriscono nell’equazione “videogame proprietario-licenza d’uso=violazione di legge”.
Cos’è il retrogaming
Il fenomeno del retrogaming si inserisce nella naturalissima —e per questo economicamente sfruttabile— attitudine a guardare le “cose” del nostro passato con un occhio particolarmente affettuoso e a renderle attraenti per chi, di quel passato, non è stato parte per ragioni anagrafiche.
Dunque, generano mercato non solo vinili, pellicole fotografiche e abiti d’annata, ma anche videogiochi che, non molti lo sanno, sono stati uno dei pilastri sui quali fu costruita la cultura hacker italiana.
Alcuni fortunati hanno ancora i giochi originali e lo hardware di un tempo (registratori a cassette inclusi) o li possono acquistare da rigattieri oppure online, e con qualche accrocco tecnologico riescono ancora a far funzionare il tutto. Altri hanno fatto ricorso ad emulatori che trasformano il proprio computer in uno dei suoi avi con 48 kb di RAM e altri ancora preferiscono acquistare oggetti dedicati che possono direttamente includere —come nel caso di quelli recensiti da Once Were Nerd— i giochi precaricati.
La legalità degli emulatori
Prima ancora di parlare della legittimità o meno di usare i retrogame è necessario domandarsi se siano legali gli emulatori, cioè i software che replicano il funzionamento della console o del microcomputer consentendo al gioco di interagire con lo hardware o con il sistema operativo.
A questa domanda ha risposto la giurisprudenza americana già nel 2000 in una causa storica, Sony Computer Entertainment (SCE) v. Connectix Corp nella quale SCE aveva sostenuto che lo “smontaggio” del software delle Playstation per realizzare un emulatore da far girare in ambiente Mac fosse illegale.
La Corte americana interessata del caso riconobbe, da un lato, il copyright di SCE ma, nello stesso tempo, dichiarò che le attività di analisi compiute da Connectix rientravano nel cosiddetto “fair use” —l’eccezione prevista anche dalla legge italiana che consente, peraltro in casi molto limitati, di fruire di opere protette anche senza licenza.
In altri termini questo significa che non ogni emulatore è, di per sé, in violazione di legge ma bisogna verificare caso per caso il modo in cui è stato realizzato.
In concreto, dunque, un software di emulazione —o una console che lo fa funzionare— possono essere del tutto legali e recensirli o provarli non è automaticamente un illecito specie se vengono commercializzati senza giochi precaricati.
La legalità delle ROM
Un discorso analogo vale per le ROM —i file dei singoli videogiochi— perché bisognerebbe verificare se chi li rende disponibili ha i diritti per farlo o se può invocare il fair use —come accade per esempio con Archive.org la cui estesa raccolta di retrogaming ha una finalità palesemente bibliografica e conservativa.
Diverso sarebbe, invece, il caso di chi, senza troppe sottigliezze, vende prodotti che incorporano software pirata, non importa quanto antichi. Ma in questo caso si applicherebbe la norma sulla duplicazione abusiva di software (l’articolo 171-bis della legge sul diritto d’autore) e non quella contestata a Once Were Nerd.
Il diritto (violato) degli utenti legittimi
Parlando di diritti, si dovrebbero considerare anche quelli degli utenti che, all’epoca, avevano acquistato le licenze dei giochi e che oggi non possono più utilizzarle perché non c’è più lo hardware originale oppure perché i supporti non sono più leggibili.
Il loro diritto a usare il software, infatti, non è venuto meno e quindi —a condizione di poter dimostrare di essere in possesso degli originali— non potrebbero (o non dovrebbero) essere sanzionati perché usano le ROM, visto che i titolari dei diritti non rendono disponibili versioni dei videogiochi per gli emulatori, o se lo fanno chiedono ulteriori pagamenti per il servizio. In altri termini: se ho pagato il diritto di usare un gioco, non mi si dovrebbe impedire di continuare a usarlo.
Come è facile capire, questo è un argomento molto scottante per i titolari dei diritti perché il riconoscimento giudiziario —cioè tramite una sentenza— di questa tutela per gli utenti potrebbe avere conseguenze economiche devastanti. Il che spiega perché, da tempo, i copyright stakeholder hanno avviato tentativi di bloccare la circolazione di software usato, la cui vendita è invece stata dichiarata legale da una sentenza della Corte europea di giustizia. E suggerisce, inoltre, una spiegazione al perché hanno sviluppato modelli commerciali “as a service” dove l’utente ha solo il diritto di usare la piattaforma e non quello di avere una copia del software. La conseguenza di questa strategia, infatti, è che l’utente non può rivendicare, per esempio, il diritto garantito dalla legge italiana ad eseguire un backup per tutelarsi dalla distruzione del supporto e dunque nulla si può chiedere ai titolari dei diritti.
Lo squilibrio dell’industria del software
Se tutto questo è vero, allora è chiaro che il convitato di pietra in tutto questo discorso è la politica commerciale delle software house e non solo di quelle che producono videogiochi.
La messa fuori mercato di un programma (ancora una volta, non solo di un videogame, ma anche di sistemi operativi e applicazioni) avviene per scelte di marketing, non (sempre) per necessità tecnologiche. Questo si traduce nel costringere gli utenti a rinunciare all’esercizio di diritti legittimamente acquisiti e a sostenere, periodicamente, esborsi e spese per ricomprare prodotti che fanno, sostanzialmente, quello che facevano le versioni precedenti.
Vista la diffusione e l’importanza che il software ha acquisito nella vita quotidiana modelli commerciali del genere non sono più sostenibili in termini economici, finanziari e organizzativi.
Sarebbe dunque urgente una riflessione strutturale su questi temi, anche a livello di Unione Europea, perché la definizione di una politica comune sullo sviluppo e sulla commercializzazione del software è una precondizione per la tanto agognata “sovranità digitale” della UE.
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