Non c’è una ragionevole aspettativa di privacy negli eventi pubblici, gli organizzatori possono acquisire anche i diritti sulle immagini dei partecipanti e farne (quasi) ciò che vogliono. Ma i social network devono rimuovere i contenuti che violano la legge, comprese le fotografie coperte dal diritto d’autore di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Italian Tech – La Repubblica
Andy Byron e Gianni Minisichetti. Due nomi sconosciuti ai non addetti ai lavori ma che sono balzati agli onori della cronaca per vicende “fotografiche” che coinvolgono privacy, diritto all’immagine e proprietà dei contenuti generati da terze parti.
Il primo è amministratore delegato di Astronomer, una software house americana, e qualche giorno fa d è stato ripreso insieme ad una donna diversa dalla moglie da una “kiss cam” durante un concerto del Coldplay a Boston, con l’immagine che ha fatto il giro del mondo. Il secondo è un fotoreporter italiano di fama internazionale che ha da poco vinto una causa contro Meta, ritenuta responsabile dal tribunale di Torino per non avere cancellato una foto coperta dal diritto d’autore scattata dal giornalista a Oriana Fallaci.
Le due vicende, per quanto diverse, rappresentano due aspetti dello stesso problema, quello dei limiti allo sfruttamento dell’immagine personale da parte di soggetti diversi dall’individuo ritratto.
Il caso Byron: non c’è privacy negli spazi aperti
Nel caso di Byron —benché sia stata (timidamente) eccepita una “violazione della privacy” — c’è poco da lamentarsi. Anche in Italia —dove la Corte di cassazione ha più volte affermato il principio di diritto— non c’è una ragionevole aspettativa di riservatezza nei luoghi pubblici. Questo significa che non si commette il reato di interferenze illecite nella vita privata (l’unica vera norma a tutela della privacy) fotografando o riprendendo qualcuno in spazi aperti. Il che è ancora più vero se le riprese avvengono durante un evento pubblico —un concerto, una manifestazione o uno spettacolo— dove l’acquisto del biglietto può implicare addirittura la cessione in favore degli organizzatori del diritto di sfruttare economicamente l’immagine degli spettatori. È quello che è accaduto durante il concerto dei Coldplay, dove la kisscam era addirittura parte integrante del concerto, tanto che era lo stesso cantante a chiedere che venissero riprese determinate scene da proiettare sui maxi-schermi.
Dunque, in un contesto del genere, nemmeno sarebbe (facilmente) possibile invocare la tutela dei dati personali per lamentarsi dell’accaduto visto che la ripresa galeotta è avvenuta in tempo reale ed è diventata “notizia” per il fatto che il cantante dei Coldplay ha attirato l’attenzione su quello che, in quel momento, veniva visualizzato.
Il fotografo ha il totale controllo sulle immagini che realizza
In casi del genere, l’unico limite è il rispetto della dignità della persona, per cui non è possibile sfruttare immagini di persone in difficoltà o in condizioni imbarazzanti, umilianti o degradate. Ci sono eccezioni alle eccezioni per l’attività giornalistica o documentaristica che svolgono una funzione sociale di denuncia o informazione ma la sostanza dei fatti rimane tal quale: le immagini sono di chi le realizza e chi viene ripreso ha possibilità molto limitate di opporsi alla loro circolazione. Lo sanno bene le molte celebrità come Ozzy Osbourne, Miley Cyrus o Ariana Grande, che hanno dovuto affrontare azioni legali per avere usato senza autorizzazione foto di loro stesse scattate liberamente da fotografi in vari contesti.
Il caso Minisichetti: le piattaforme sono responsabili se non rimuovono contenuti segnalati come illeciti
Il che ci porta al caso Minisichetti: un’azione legale avviata contro Meta che non aveva dato seguito alla richiesta di cancellare un’immagine di Oriana Fallaci che il giornalista aveva scattato a New York nel 1972 e “rimbalzata” da tempo in moltissimi profili Facebook.
Il tribunale di Torino, applicando un principio stabilito nel 2000 dalla direttiva UE sul commercio elettronico, ha deciso che le segnalazioni di Minisichetti erano sufficientemente fondate per far scattare l’obbligo di rimozione del contenuto utilizzato dagli utenti del social network.
A questo proposito si potrebbe discutere a lungo se l’obbligo imposto dalla UE sia legittimo —non spetta ai privati ma ai giudici decidere se qualcosa sia illegale o meno— e se così facendo la UE ha sostanzialmente privatizzato la giustizia, disinteressandosi della tutela dei diritti dei cittadini. Ma ciò che conta nell’immediato è l’esistenza della possibilità di ottenere un risarcimento anche dalle piattaforme (social network, ma anche testate e blog) e non (solo) da chi utilizza senza diritto le opere altrui.
Non tutti i contenuti sono protetti allo stesso modo dal diritto d’autore
Il tema è particolarmente rilevante perché proprio secondo la legge sul diritto d’autore non tutti i contenuti sono protetti e dunque non per tutti i contenuti si possono automaticamente chiedere cancellazioni e risarcimenti.
In termini generali, un testo, una musica o un’immagine sono tutelati dalla legge a condizione che siano espressione della creatività umana. Nel caso delle fotografie, poi, esiste addirittura una differenza fra “opere fotografiche” e “fotografie semplici”. Le prime sono quelle che raggiungono lo status di opera d’arte (in caso di dubbi è necessario l’intervento del giudice), le seconde sono quelle che non “trascendono” al “livello superiore” e sulle quali il fotografo ha diritti più limitati. Infine, la legge —i cui estensori non potevano conoscere il lavoro di Vittorugo Contino sugli scritti di Ezra Pound— non riserva alcuna tutela alle fotografie di scritti, documenti e progetti.
Tutelare i contenuti a prescindere dal diritto d’autore?
Ampliando i termini della riflessione, va detto che questo approccio che risale concettualmente al XIX secolo è palesemente inadatto a tutelare l’industria dei contenuti e i “content creator” individuali perché non considera il cambiamento radicale causato dalla diffusione delle piattaforme di content-sharing.
Oggi un contenuto non ha valore perché è creativo, ma perché è vendibile o “monetizzabile”.
In altri termini, per rimanere sul caso specifico, non è importante se il “contenuto” sia una fotografia “vera” o un’immagine generata tramite IA, né se si possa invocare il diritto d’autore, perché a prescindere dal come è stato realizzato conta solo se può essere sfruttato per guadagnare. E non c’è bisogno di una legge specifica, perché almeno in Italia, anche se un “contenuto” non è “creativo” è ugualmente tutelato.
Il venerando articolo 810 del Codice civile —risalente al 1942— stabilisce, infatti, che “sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”. Dunque, poco importa che un’immagine sia stata realizzata con una raffica fotografica (dove dunque il fotografo non ha alcun ruolo creativo) o tramite un text-to-image: il risultato è di chi lo ha prodotto (che dunque può sfruttarlo), anche se non vale il diritto d’autore.
Superare il copyright per proteggere la persona
A valle di questo ragionamento, è chiaro che se la preoccupazione causata dalle vicende di Byron e di Minisichetti riguarda il controllo sull’immagine personale negli spazi pubblici e la repressione del suo abuso è evidente che né la “privacy” né il diritto d’autore possono essere strumenti di tutela.
Ostinarsi a percorrere questa strada conduce ad effetti paradossali come fare apologia, in nome della “privacy”, di sistemi di anti-riconoscimento facciale che in Italia potrebbero essere contrari al Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Oppure, come la proposta danese di riconoscere il “copyright” —cioè il diritto d’autore— sui tratti somatici e sulla voce per combattere i deep-fake ma che, evidentemente, nulla hanno di “creativo”.
Certamente, dunque, il diritto alla tutela dell’immagine personale (anch’esso datato al 1942) è uno strumento più efficace di “privacy” e diritto d’autore per tutelare il modo in cui viviamo quando siamo negli spazi aperti.
Tutelarsi è impossibile?
Tuttavia, passando dalle aule universitarie alla vita reale, di fronte all’enorme numero di soggetti che diffondono contenuti in quantità ancora maggiore, anche quest’arma si rivela poco efficace se deve essere usata contro gli autori delle violazioni. Sono troppi, troppo diffusi in giro per il mondo e spesso commettono azioni che non superano un livello di allarme sociale tale da giustificare l’intervento dello Stato a tutela della collettività.
Se, dunque e per certi versi, appare pragmaticamente corretto “prendersela” con i gatekeeper, le piattaforme che consentono la circolazione dei contenuti pubblicati dagli utenti, dall’altro il prezzo che paghiamo è sgravare lo Stato del dovere di fare giustizia. Così facendo lasciamo la tutela dei nostri diritti alle acceptable user policy o ai terms&conditions che, ovviamente, tutti abbiamo letto, compreso e accettato prima di fare click sul pulsante “submit”.
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