Metatag e concorrenza sleale. Dal tribunale di Roma una decisione da “prendere con le molle”

di Andrea MontiWebMarketing Tools n.40/01

L’ordinanza 18/1/2001 della nona sezione civile del tribunale di Roma stabilisce che non è consentito utilizzare il nome di un concorrente come metatag allo scopo di “pilotare” le query sui motori di ricerca dei potenziali clienti.

Il caso riguarda una controversia fra due compagnie di assicurazioni, una delle quali avrebbe inserito il nome della concorrente fra i metatag del proprio sito. In modo che – si dice – che le query sui motori di ricerca restituissero sempre il suo indirizzo anche se dirette verso la concorrente.

L’uso distorto dei metatag è noto oltreoceano da parecchio tempo e infatti ci sono alcuni precedenti che conviene considerare prima di addentrarsi nell’analisi dell’ordinanza italiana.

In Brookfield Communications Inc. v. West Coast Entertainment Corp.[1], un caso di sviamento di potenziale clientela tramite appunto i metatag,la Corte ha affrontato il problema dal punto di vista della tutela dell’initial interest del consumatore. E ha ritenuto che persino l’eventuale successiva eliminazione della confusione (magari appena prima di completare un contratto di vendita di un qualche prodotto) comunque avrebbe consentito al concorrente di carpire la buona fede del consumatore riguardo alla notorietà acquisita del proprietario del marchio. Anche se in una seconda fase – infatti – si provvedesse a chiarire al cliente che ci si trova su tutt’altro sito (diverso da quello cercato inizialmente), egli “potrebbe ritenere che non valga la pena continuare la ricerca”.

A simili conclusioni sono giunti due altri casi, Playboy Enterprises v. Asiafocus International Inc., e Niton Corp. V. Radiation Monitoring Devices Inc.: nel primo, in particolare, Asiafocus aveva utilizzato tra i propri meta tag termini come playboy e playmate, direttamente riferiti all’attività di Playboy, ingenerando la convinzione che il sito di proprietà di Asiafocus fosse in qualche modo collegato o sponsorizzato da Playboy.

Nel secondo caso, addirittura, una delle due parti aveva direttamente copiato tutti i metatag dell’altra, cosicchè l’utente che effettuava una ricerca se li ritrovava regolarmente “affiancati” tra i risultati reperiti dal motore.

Un caso del 1997 vede ancora Playboy contrapposto a Calvin Designer Label, che oltre ai meta tag aveva utilizzato i marchi dell’altra parte anche nel nome di dominio, nei contenuti del sito, nella pubblicità e in altre forme; in questo caso Playboy riscì ad ottenere un Temporary Restraining Order per bloccare le attività illecitamente svolte da Calvin Designer[2].

La stessa fonte[3] cita un ennesimo provedimento (Instituform Technologies v. National Envirotech Group) in cui oltre all’uso di marchi altrui nei famigerati tag presenti nel codice, un sito si era anche appropriato di materiali del concorrente relativi al marketing. Il caso si è concluso con un’ingiunzione permanente all’utilizzo dei marchi del ricorrente nei meta tag.

Le indicazioni della giurisprudenza statunitense fissano un principio di ordine generale: ad essere illecita sono la modalità concreta di impiego dello strumento tecnico e gli effetti che questo produce, e non lo strumento tecnico in sé.

Per potersi “lamentare” dell’uso illecito dei meta-tag, quindi, si dovrebbe almeno dimostrare che l’inserimento del nome o del marchio del concorrente:

  1. non è giustificabile, ad esempio, con i contenuti della pagina. Non vìola alcuna legge un’azienda che confronta su una pagina web – in modo professionalmente corretto – i propri prodotti con quelli dei concorrenti. Tra l’altro, anche senza metatag la pagina verrebbe indicizzata ugualmente con riferimento agli “avversari”. Viceversa, se non c’è alcun motivo di utilizzare “segni” appartenenti a terzi allora si potrebbe ledere il diritto altrui
  2. è ripetuto e indiscriminato
  3. ha effettivamente “forzato” il motore di ricerca costringendolo a evidenziare più spesso un sito piuttosto che un altro. Si tratta di una prova difficile da fornire, considerando che l’indicizzazione delle pagine web è dinamica. Per cui non è automatico “rimanere alti” sui motori.

Sulla base di questi elementi è possibile riflettere sulla recente decisione italiana.

Tralasciamo il fatto – almeno così pare di capire, non essendoci motivo di ritenere il contrario – che il giudice ha ritenuto “utilizzabile” una pagina HTML di provenienza non meglio specificata[4] e che invece doveva essere prodotta in originale e andiamo al sodo.

Scrive il giudice: “Nel caso di specie, l’uso da parte di Crowe Italia, quale meta-tag, della parola Genertel, che contraddistingue l’attività assicurativa per telefono o via internet della ricorrente, dipende esclusivamente dallo scopo, così perseguito dalla resistente, di far comparire, tra i risultati della ricerca dell’utente della rete, il proprio sito e dunque, la propria presenza sul mercato dell’assicurazione RCA grazie alla notorietà raggiunta nel settore per cui è causa dalla medesima ricorrente, detentrice di una rilevante quota di mercato – dato non contestato – riportato nel ricorso introduttivo sulla base delle rilevazioni ufficiali ANIA ed impegnata in onerose campagne pubblicitarie sui media.”

Sembrerebbe, dunque, che il giudice non si sia spinto più di tanto nell’analisi del caso concreto, per verificare gli effetti della presenza dei metatag “incriminati”. Giungendo così ad una conclusione troppo ampia e generica secondo la quale qualsiasi utilizzo di questa tecnica, diretto ad utilizzare nomi o marchi concorrenti, sarebbe fuori legge. Il che non è chiaramente condivisibile. Sarebbe come dire che se Repubblica menziona in una pagina web il Corriere della sera, Repubblica sta cercando di trarre indebito vantaggio dalla notorietà del concorrente.

Continua il provvedimento: “Non v’è dubbio, del resto, che anche la semplice conoscenza, da parte dell’utente di internet, dell’esistenza di altri prodotti o servizi comparabili con quelli della società istante, conoscenza ottenuta dalla Crowe Italia sfruttando slealmente i risultati degli sforzi imprenditoriali della concorrente e magari offrendo anche prodotti o servizi analoghi ed a prezzi migliori, è idonea ad influenzare la scelta del consumatore.”

Queste frasi sembrano dare per scontato quello che invece è tutto da dimostrare, oltre ad evidenziare una non perfetta conoscenza delle dinamiche commerciali e di funzionamento della rete. Il posizionamento nei motori di ricerca, infatti, non dipende in modo così stretto dall’impiego dei metatag ma anche da una serie di altri strumenti ben noti agli “addetti ai lavori”.

E’ evidente, quindi, che sarebbe stato necessario, da parte del giudice, un maggiore approfondimento delle questioni di fatto prima di occuparsi di quelle di diritto che, tutto sommato, non sono poi così astruse.

In altri termini, questa ordinanza usa l’accetta dove sarebbe stato indispensabile ricorrere al bisturi. Come dimostra la conclusione del provvedimento: “Va inibito l’uso del meta-tag nei termini sopra indicati e la resistente provvederà a che nei motori di ricerca sia eliminata la presente parola Genertel (enfasi aggiunta). Tale misura, peraltro, appare sufficiente a realizzare le esigenza cautelari rappresentate dalla ricorrente.”

Eliminare la parola “Genertel” dai motori di ricerca… in bocca al lupo:)


[1] Michael T.Zeller, How to Combat Attempts to Divert Web Traffic, in The Internet Newsletter with legal.online, Vol.4 n.10, New York, January 2000, p.1.

[2] J.S.Millstein – J.D.Neuburger – J.P.Weingart, Doing Business on the Internet, New York 1998 § 4.03[8]

[3] J.S.Millstein – J.D.Neuburger – J.P.Weingart, op. cit.§ 4.03[8]

[4] Contrariamente a questa controversia, nel caso Monte dei Paschi di Siena vs Pinto, ancora in discussione al Tribunale di Teramo, il giudice ha disposto un’ispezione giudiziale per verificare la congruenza di quanto prodotto da una parte, rispetto a quanto visualizzabile online.

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