Supporto nei PC branded: come evitare sorprese

di Andrea Monti – PC Professionale n. 164

Mentre la garanzia è regolata da una normativa, l’assistenza cambia in base al produttore e spesso non è estesa a componenti o periferiche di altri marchi

Il supporto e l’assistenza inclusi nel prezzo costituiscono una delle ragioni più frequenti che – per evidenti motivi – spingono gli utenti ad acquistare un PC “di marca”. Specie chi non ha molta dimestichezza con l’informatica, infatti, è tranquillizzato dalla consapevolezza di poter ricevere aiuto anche in caso di problemi non derivanti da difetti dei componenti. Questa tipologia di servizio – diversamente da quanto si potrebbe pensare – non rientra nell’ambito della garanzia ma dell’assistenza e il fatto di renderlo disponbile è lasciato alla pura discrezionalità del produttore/venditore.

A differenza della garanzia sul funzionamento e sui difetti di conformità – che è prevista per legge – i produttori e i venditori non hanno alcun obbligo normativo di offrire assistenza all’utente, e il supporto diventa, oltre che un elemento di promozione commerciale, una componente aggiuntiva che può incidere anche sensibilmente sul prezzo finale. In breve, l’acquisto di un computer si compone di tre elementi essenziali (a parte le questioni legate al software): la proprietà del computer, la prestazione di garanzia, l’assistenza.

Ma, come detto, mentre la garanzia ha una sua regolamentazione (abbastanza) precisa, questo non accade per l’assistenza che è fondamentalmente lasciata alla regolamentazione contrattuale ed è abbastanza differente da produttore a produttore o, addirittura, da modello a modello della stessa casa. E’ dunque necessario sapere “cosa chiedere” quando, nella scelta del computer da acquistare, il supporto rientra fra gli elementi che condizionano la scelta finale, senza lasciarsi abbagliare da promesse che, in più di un caso, non saranno mantenute.

In primo luogo si deve controllare se sia offerta la possibilità di parlare con un tecnico (anche via mail o chat), o se il supporto sia esclusivamente automatico (cioè erogato via web, FAQ o altro sistema). E’ facile capire che la differenza non è banale specie se, per parlare con l’assistenza, viene richiesto di telefonare a un numero internazionale oppure a “valore aggiunto” (tipo 199 o 899, per intenderci). In quest’ultimo caso è utile anche informarsi al momento dell’acquisto sui costi delle telefonate e dei tempi medi di risposta.

Un altro suggerimento utile è quello di scrivere, prima di telefonare, tutte le informazioni sul modello di PC e sintetizzare la descrizione del problema. Una volta contattato l’operatore, bisogna farsi lasciare il nome e, soprattutto, il numero di pratica (o “ticket”) che tornerà utile nel caso di ulteriori chiamate. Un altro elemento da considerare con molta attenzione è l’estensione del supporto, cioè la tipologia di eventi per i quali è fornita l’assistenza. Di regola, infatti, il produttore di un PC di marca non offre supporto per i problemi derivanti dai software e, per quanto riguarda l’hardware, “assiste” solo ed esclusivamente per le proprie macchine e\o i propri componenti. Questo significa che, se viene aggiunta una periferica (es. una scheda video più performante) o il PC viene collegato a una stampante di altra marca, il supporto tecnico può legittimamente rifiutarsi di aiutarvi nel risolvere il problema che vi affligge.

È quanto abbiamo personalmente verificato “sotto copertura”, con una nota multinazionale produttrice di PC e stampanti, il cui supporto tecnico – peraltro molto maleducatamente – si è chiamato fuori di fronte al (mal)funzionamento di una porta parallela prodotta da terze parti e installata su un desktop per il quale il produttore stesso non rendeva disponibile la periferica in questione. Purtroppo, è bene dirlo in modo chiaro, anche inviare lettere di protesta agli uffici relazioni esterne serve a poco, perché al di là di frasi di circostanza (quando pure vengono pronunciate) si riesce a ottenere poco o nulla perché il contratto è molto chiaro sulle questioni appena accennate. L’indicazione che proviene da questa prova sul campo è che l’uso dell’assistenza come elemento di valore aggiunto nell’acquisto di un computer è, in realtà, da valutare con molta attenzione e non costituisce necessariamente un vantaggio.

È senz’altro opportuno, prima di propendere per una marca piuttosto che per l’altra, avere ben chiara la destinazione d’uso del PC e la disponibilità di accessori originali. In altri termini: se pensate di “smanettare” sulla macchina, cambiando componenti e quant’altro, allora l’esistenza di un servizio di supporto potrebbe essere superflua. Se, viceversa, il computer è utilizzato “così com’è” allora può avere senso dotarsi di questo servizio aggiuntivo. A differenza, infine, da quanto accade con il software preinstallato (che si può restituire ottenendo il rimborso del costo della licenza) non è possibile acquistare un PC rifiutando l’assistenza.

Dal betamax a Grokster: una sentenza americana “legittima” alcuni software peer-to-peer

Riprendendo il principio secondo cui il produttore non è responsabile dell’utilizzo illecito del bene prodotto, si è esclusa la responsabilità di chi realizza e distribuisce Grokster

Il 19 febbraio 2004 la Corte d’appello USA per il nono distretto si è pronunciata, nel processo intentato da Metro Goldwin Mayer e moltre altre major contro gli autori del noto software di file-sharing Grokster (il testo della decisione è reperibile su www.ictlex.net/index.php?p=404). L’accusa mossa agli autori di Grokster era – in sintesi – quella di favorire la duplicazione abusiva di opere protette con la realizzazione e diffusione del software in questione. Avendo già incassato una sconfitta in primo grado, le major avevano presentato appello riproponendo, essenzialmente, le stesse ragioni della fase precedente. Ma si è trattato di uno sforzo vano perché la corte superiore ha confermato la sentenza di primo grado applicando dei principi di diritto noti fin dal 1984 sul “problema” del chi sia responsabile per l’utilizzo a fini illeciti degli apparecchi di registrazione (Sony Corp. of America v. Universal City Studios, Inc., 464 U.S. 417).

All’epoca le major dell’audiovisivo cercarono di far affermare la responsabilità del produttore degli strumenti di duplicazione (si trattava in quel caso dei videoregistratori Sony) ma, giustamente, senza successo. Nella causa Sony-Betamax, la Corte Suprema degli Stati Uniti affermò infatti che la vendita di videoregistratori non implicava una “complicità” nella duplicazione illegale, anche se il produttore era a conoscenza dell’uso non corretto dei suoi apparecchi. Questo perché, argomentava la Corte, il prodotto in questione poteva essere usato commercialmente senza violare la legge.

In altri termini, si diceva, un videoregistratore può essere utilizzato in modo assolutamente legale e pertanto il fatto che lo si possa “strumentalizzare” per fare altro non implica alcuna responsabilità per chi lo ha costruito o venduto. Ragionamento analogo – scrive oggi la Corte d’appello – vale per Grokster che può essere usato in modo perfettamente lecito (attenzione, la decisione è chiara nel non generalizzare queste conclusioni a tutti i software per il peer-to-peer). “Un chiaro esempio di quanto sopra, fornito dai distributori di software”, si legge nella opinion del giudice Thomas, “è il caso del popolare gruppo musicale Wilco. La loro casa discografica si era rifiutata di pubblicare uno dei loro album ritenendolo privo di potenziale commmerciale.

I Wilco hanno riacquistato i diritti dalla casa discografica e hanno distribuito l’opera tramite il loro sito e i network peer-to-peer. Gli esiti di questa operazione si sono tradotti in un nuovo contratto di registrazione per i Wilco”. Dunque, dice la Corte d’appello, anche nel caso di Grokster siamo in presenza di un prodotto che può essere primariamente utilizzato in modo legale e quindi non può essere affermata la responsabilità di chi lo realizza e distribuisce. Non è dunque così semplice accusare chi scrive software di avere commesso quello che nel diritto americano è definito “contributory infringement”, perché secondo la consolidata giurisprudenza americana la responsabilità giuridica nasce dal momento in cui chi distribuisce il software ha ragionevole conoscenza della specifica violazione del diritto d’autore e non del fatto che qualcuno, tanti o pochi che siano, viola la legge.

La conseguenza è che le major che intendono “mettere in mezzo” l’autore di un software sono obbligate a fornire la prova dell’effettiva e concreta conoscenza del fatto che qualcuno, in un preciso momento, sta violando la legge. E a questo proposito, continua la decisione, si mostra di fondamentale importanza il modo in cui il Grokster – che può essere usato per ridurre gli elevati costi di distribuzione delle opere in pubblico dominio o di opere condivise – è stato progettato. In breve: se lo scambio dei file avviene indipendentemente dalle possibilità di intervento del distributore del software, questi non può essere accusato di nulla.

Si tratta di un principio giuridico non certo inventato dagli americani, visto che già ai tempi del diritto romano era consolidato il detto “ad impossibilia nemo tenetur” (nessuno è obbligato a fare cose impossibili). Questa sentenza entra come un cuneo nel dibattito nascosto che, in questi tempi, si sta sviluppando in Italia riguardo le modifiche della legge Urbani (www.ictlex.net/index.php?p=75) cioè di quello scandaloso e inutile provvedimento che complicava inutilmente la già farraginosa legge sul diritto d’autore con la scusa di “combattere la pirateria”. Con buona pace di chi, come l’on. Cortiana (Verdi) riteneva che la legge sarebbe stata migliorata e che per questo aveva ritirato gli oltre 700 emendamenti che il “popolo della rete” gli aveva consegnato, voci insistenti parlano di un ulteriore giro di vite contro gli utenti.

Questo vale in modo particolare per il ruolo degli internet provider che, pare, potrebbero addirittura essere costretti a rimuovere contenuti controversi a fronte di una semplice diffida proveniente dal sedicente titolare dei diritti d’autore. C’è da sperare che chi sta scrivendo questa ennesima modifica alla legge sul diritto d’autore dia un’occhiata alla sentenza newyorkese prima di fare altri danni.

Possibly Related Posts: