Meta-tag e concorrenza sleale: si pronuncia il tribunale di Milano

di Andrea Monti – PC Professionale n. 134

Chi inserisce parole nascoste in una pagina web per indirizzare a suo favore i risultati dei motori di ricerca è responsabile di concorrenza sleale. Con un’ordinanza depositata l’8 febbraio 2002 la prima sezione civile del tribunale di Milano ha affrontato il tema dell’abuso di meta-tag. Cioè del comportamento di chi inserisce parole “nascoste” in una pagina web che “forzano la mano” ai motori di ricerca, in modo che cercando il prodotto A si arrivi al web del prodotto B.

Decidendo su un ricorso d’urgenza proposto nei confronti di una società “accusata” appunto di avere inserito il nome del concorrente fra i meta-tag del proprio sito, il tribunale ha qualificato il fatto nell’ambito della violazione delle norme in materia di concorrenza sleale. E ha inibito l’ulteriore utilizzazione della parola quale meta tag riferibile al sito web della resistente, ordinandone contemporaneamente l’eliminazione da tutti i motori di ricerca.

A prescindere dai torti e dalle ragioni – che saranno discussi nel seguito della controversia – è interessante ripercorrere il ragionamento del giudice, con particolare riferimento ai presupposti che lo hanno condotto a una decisione che avrebbe richiesto un’analisi più approfondita degli aspetti tecnici relativi al funzionamento di un motore di ricerca.

Ma andiamo con ordine. Un primo punto molto interessante è che il tribunale ritiene non applicabile la legge marchi ad un caso del genere. Scrive il giudice “ciò che sembra difettare nell’uso quale meta-tag… del termine protetto dai brevetti in questione sembra essere proprio l’uso del segno in funzione di marchio e cioè in funzione distintiva. Il termine… non risulta apposto su alcun prodotto né serve a identificare alcun servizio, tanto che l’utente della rete che avvia una ricerca imperniata su di esso non può riscontrare visivamente tale termine sul sito della resistente né quindi rendersi conto in alcun modo dell’uso (indebito o meno) del marchio altrui da cui potrebbe derivare il conseguente pericolo di confondibilità.”.

In pratica – semplificando – la violazione della legge marchi si ha quando si “appiccica” l’etichetta del prodotto A sul prodotto B e non quando il nome del marchio viene usato senza un intervento diretto sull’utente finale. Qualche perplessità è suscitata invece dall’affermazione categorica secondo la quale “l’effetto dell’inserimento del termine in questione nell’ambito della parola chiave che indirizzano la ricerca dei motori di ricerca … consiste nella visualizzazione del riferimento al sito della resistente insieme a quello della ricorrente ogniqualvolta l’utente imposti la ricerca sui siti specializzati”. In realtà non è affatto vero che il semplice inserimento di un metatag sia sufficiente a forzare i risultati prodotti dai motori di ricerca.

Come è noto, infatti, le tecniche per “rimanere alti” nelle indicizzazioni sono molto più articolate e complesse. E soprattutto devono essere continuamente applicate, altrimenti il risultato raggiunto è vanificato nel giro di poco tempo. Per di più, non tutti i motori funzionano allo stesso modo. Google, ad esempio, che al momento pare essere il più efficiente, utilizza una tecnologia basata sui link e sulle relazioni fra i contenuti piuttosto che sui meta-tag. E dunque nei suoi confronti il mero utilizzo di questo “trucco” funzionerebbe sicuramente meno.

Altri dubbi riguardano la correttezza tecnica dell’affermazione che si legge nell’ordinanza, secondo la quale risulterebbe dagli atti di causa che “i principali motori di ricerca non avevano eliminato il metatag in questione” nonostante la cosa fosse stata loro richiesta; e di quella con la quale si ritiene che la eliminazione dei meta-tag sarebbe lo strumento tramite il quale evitare la prosecuzione dell’illecito. La prima affermazione è troppo generica mentre la seconda non tiene presente che per “rimettere a posto” gli output dei motori di ricerca si possono utilizzare altri strumenti ben più efficaci.

Insomma, un provvedimento che dimostra ancora una volta – grazie alla ragionevole applicazione dei principi del diritto – da un lato la sostanziale inutilità di nuove leggi per regolamentare l’uso della rete. Ma dall’altro, la necessità – direi l’urgenza – di far crescere la preparazione tecnica fra chi è chiamato a giudicare e a difendere.

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