GIP Perugia Sent. n. 313/03

Tribunale Civile e Penale di Perugia,
Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari
Sentenza 8 luglio – 30 dicembre 2003
N. 313/03 Reg. Sentenze

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Giudice dottor Paolo MICHELI
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel processo penale
contro
Tizio – presente
difensore di fiducia Avv. Laura Modena del Foro di Perugia – presente
IMPUTATO
A. del delitto p. e p. dagli artt. 81 comma 2, 600-ter comma 3 c.p., perché con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, tramite personal computer, per via telematica attraverso Internet, collegandosi in Chat C6 di “Seat Pagine Gialle” e utilizzando il nick-name “YYYYYY” (e indirizzo IP _______), distribuiva o comunque divulgava materiale pornografico avente ad oggetto minori di anni 18, inviando sette immagini a personale del Compartimento Polizia Postale e delle Comunicasioni per la Lombardia, che agiva sotto copertura.
In ************
B. del delitto p. e p. dall’art. 600-quater c.p., per aver detenuto ventidue immagini pornografiche (prodotte mediante sfruttamento sessuale di minori infradiciottenni, raffigurati nel compimento di atti sessuali o comunque nudi; immagini comunque allegate alla nota datata 7 ottobre 2002 del Compartimento Polizia Postale e delle Comunicazioni per la Lombardia), immagini memorizzate sul disco fisso del computer notebook “Toshiba Satellite 1700” (n. seriale **** allo stesso in uso e sequestratogli all’atto dell’esecuzione della misura cuatelare degli arresti domiciliari).
Accertato in *********

MOTIVI DELLA DECISIONE

All’imputato viene contestato di avere:
–          distribuito o comunque divulgato materiale pornografico ritraente minorenni;
–          detenuto altro materiale pornografico, comunque realizzato mediante lo sfruttamento di minori di anni 18.

In particolare, il primo capo della rubrica si fonda sull’accertata trasmissione di 7 immagini a sfondo sessuale da parte del Tizio, inviate a personale di P.G. operante sotto copertura; il secondo sulle verifiche compiute analizzando il disco fisso del personal computer portatile in possesso del prevenuto, la cui memoria  – specificamente, nella cartella dei files temporanei di internet –  conteneva altre 22 immagini di analogo contenuto.

Le indagini prendevano le mosse nell’aprile 2001 con l’accesso alla chat line “C6” del provider TIN, compiuto da un agente del Compartimento di Polizia Postale e delle Comunicazioni per la Lombardia, su segnalazione di un conoscente che aveva rappresentato la divulgazione in atto di materiale pedo-pornografico su quella chat , ad opera di un dato utilizzatore: l’agente riscontrava in effetti quanto gli era stato anticipato, accertando che l’utente in questione risultava residente in XXXXXX, e ne derivava (fra l’altro) la richiesta al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di XXXXXX per lo svolgimento della peculiare attività ex art. 14 legge n. 269/1998.

Ottenuta rituale autorizzazione, nel giugno successivo un altro agente in servizio presso lo stesso Compartimento entrava in contatto con un utente della chat line rispondente al nickname “YYYYYY”: spacciandosi per una ragazzina di 11 anni, e presentandosi come “ZZZZZZ”, l’agente si intratteneva a lungo con “YYYYYY”, che si rivelava di lì a poco un ragazzo di 27 anni, di nome e residente ad *****, a suo dire commesso in un negozio di scarpe per donna.   L’ignoto chiedeva alla sua apparente giovanissima interlocutrice se avesse foto sue, palesandosi nel contempo in grado di inviargliene un centinaio: l’agente sotto copertura gli chiedeva se ne avesse a contenuto violento, dicendo che non le avrebbe gradite, e l’altro precisava di no, spedendo comunque dopo poco la prima immagine (“famili1.jpg”).

“YYYYYY” chiedeva spiegazioni sulla scena ritratta, e l’altro confermava apertis verbis che la foto riguardava una masturbazione femminile, chiedendo anzi a quella che immaginava essere una 11enne se a lei fosse mai stato praticato un atto del genere, o se si fosse masturbata da sé: l’agente inviava la risposta negativa, e nel frattempo spediva l’immagine “famili2.jpg”.  

A quel punto l’agente sollecitava “YYYYYY” a mandare una foto “con la bocca, però con una della mia età”, tornando quindi a fare domande e dare risposte personali al giovane (se lui avesse la fidanzata, con l’altro che dichiarava di essere legato ad una certa **** di ****, oppure se lei avesse mai visto un uomo nudo, fatto qualcosa con ragazzi, e così via).   La terza e quarta foto che trasmetteva (“dads1.jpg” e “dads3.jpg”) contenevano scene di sesso ancora più esplicito, orale ed anale, e così pure le due successive (dai nomi inequivoci “orgy1.jpg” e “orgy4.jpg”): l’agente gli chiedeva intanto se avesse anche un video con la stessa ragazza delle foto, ricevendo risposta negativa, e la conversazione si chiudeva  – dopo una serie ripetuta di richieste del giovane affinché la presunta 11enne gli mandasse una sua foto –  con l’inoltro a “ZZZZZZ” dell’ultima immagine, “vid2.jpg”.

I successivi accertamenti sul numero di IP XX.XX.XXX.XXX correlato al suddetto nickname, sviluppati anche con riferimento alla casella di posta elettronica fornita dall’utente alla chat “C6” ed al cosiddetto user ID (rispondente all’identificativo “aaaaaa”), portavano a individuare il sedicente “YYYYYY” proprio in Tizio , come generalizzato in epigrafe.    In seguito, veniva attivato un servizio di intercettazione sull’utenza Telecom – ********, intestata a Tizio Senior, padre di –  da cui risultava la connessione alla rete in occasione del contatto sopra documentato: l’intercettazione non dava esito, in quanto nel periodo sottoposto a controllo il Tizio risultava essersi momentaneamente trasferito a *****, presso la fidanzata **** ****, ma la verifica consentiva comunque di assodare che, in assenza del giovane, la linea telefonica non era stata utilizzata da alcuno per connessioni ad internet.

La P.G. acclarava inoltre che lo stesso Tizio, utilizzando un altro nickname, era rimasto coinvolto in analoghe trasmissioni di materiale pedo-pornografico monitorate dalla Polizia Postale di Palermo appena un mese prima: in questa circostanza egli aveva nickname “yyyyyy”, ma lo stesso identificativo di utente (“aaaaaa”).

Sulla base delle risultanze investigative descritte, il P.M. chiedeva al G.I.P. presso il Tribunale di ***** l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari a carico del prevenuto, rilevando  – in punto di esatta qualificazione giuridica –  che

“la condotta tenuta dall’indagato configura l’ipotesi criminosa di cui all’art. 600-ter, 3° co., c.p., e non quella di cui al successivo 4° co.  Le due ipotesi delittuose si differenziano perché, mentre la prima presuppone, come elemento costitutivo, la divulgazione e cioè l’accessibilità di una notizia od altro da parte di un numero indeterminato di persone, la seconda, invece, che carattere residuale, implica un contatto di carattere occasionale, singolarmente effettuato. 

La trasmissione del materiale pedo-pornografico da parte di Tizio è avvenuta tramite internet a seguito di collegamento con la chat C6, canale che è accessibile ad un numero indeterminato di utenti, anche se, successivamente, la comunicazione avviene con i soggetti presenti nell’area.  Si osserva inoltre che, a seguito della trasmissione via internet delle immagini all’agente sotto copertura, le immagini o i video rimangono nella disponibilità del navigatore, con conseguente possibilità di trasmetterle ulteriormente ad un numero indeterminato di persone, contattate nella stessa chat, od eventualmente di scaricarle dal personal computer, per evitare di lasciare traccia e, all’occorrenza, trasmetterle nuovamente.  La diffusione via internet di immagini pedo-pornografiche presenta un grado di offensività chiaramente maggiore rispetto a singole consegne distinte e separate, effettuate con i sistemi tradizionali di comunicazione.     Lo strumento telematico, in particolare nella forma utilizzata nel caso di specie dall’indagato, proprio per la sua idoneità a permettere contatti con un numero indeterminato di utenti, conferisce un maggior grado di offensività alla condotta di diffusione e, per tale ragione, il legislatore ha ritenuto di configurare un’ipotesi delittuosa autonoma (art. 600-ter, 3° co., c.p.), punita più severamente rispetto a quella residuale prevista nell’art. 600-ter, 4° co., c.p.   La giurisprudenza della S.C. è decisamente orientata nel senso di ritenere che, quando le immagini pornografiche di minori vengano cedute a mezzo di una chat line (sistema di comunicazione in tempo reale che permette agli utenti di scambiarsi messaggi ed altre informazioni in formato digitale, strutturato come uno spazio virtuale, suddiviso in tante stanze in cui diversi soggetti possono dialogare), venga integrato il reato di cui all’art. 600-ter, 3° co., c.p., e non quello di cui al 4° comma”.

Il Giudice di ***** aderiva all’impostazione dell’accusa, accogliendo l’istanza restrittiva ma dichiarandosi contestualmente incompetente per territorio, in quanto il Tizio aveva realizzato la sua condotta operando sul computer collegato all’utenza telefonica fissa intestata al padre, e dunque trovandosi in *****.

La misura cautelare veniva eseguita nel maggio 2002, e contestualmente la P.G. dava corso a perquisizione nei domicili del Tizio a **** e ad ****, con il conseguente sequestro di un computer portatile, nonché di fumetti, supporti magnetici ed informatici (videocassette, CD, floppy) aventi riferimenti pornografici.   In sede di interrogatorio di garanzia, il prevenuto ammetteva l’addebito dicendo di essere capitato per caso nella chat, ove era entrato tre volte in tutto, e di avere stupidamente inviato una foto che gli era stata trasmessa da altri: precisava di averlo fatto solo perché se lo era sentito chiedere, e di non essersi reso conto della gravità della condotta.

Confermata la misura da questo Ufficio ex art. 27 c.p.p., il Tribunale di Perugia rigettava la richiesta di riesame avanzata nell’interesse del Tizio, argomentando che nella condotta di quest’ultimo

“sono ravvisabili gli estremi del reato di cui al terzo comma dell’art. 600-ter c.p., che fa riferimento ad ogni forma, anche per via telematica, di distribuzione e divulgazione di materiale pornografico riguardante minori, e non di quello previsto dal comma quarto dello stesso articolo, che prende in considerazione l’ipotesi residuale (..) di semplice cessione di materiale pornografico riguardante minori: nella fattispecie, pur procedendosi per un singolo episodio, e restando irrilevante il fatto che esso sia stato provocato dall’agente sotto copertura, così come anche la finalità di adescamento o sfruttamento sessuale di minori (elemento costitutivo della condotta di cui alla seconda parte del terzo comma), la semplice lettura del testo normativo evidenzia che la diffusione delle immagini pedo-pornografiche considerata al terzo comma (prima parte) è quella che avviene con ogni mezzo che abbia una spiccata capacità diffusiva (tanto che a titolo esemplificativo, ma certamente significativo, parla di diffusione, divulgazione e pubblicizzazione di materiale per via telematica), mentre la cessione di cui al quarto comma, senza altre specificazioni delle modalità di trasmissione delle immagini e chiaramente strutturata come ipotesi residuale rispetto alle più gravi condotte considerate nei commi precedenti, deve ritenersi attuata con i tradizionali sistemi di comunicazione, che di norma registrano due sole parti come soggetti dello scambio: nella fattispecie l’invio delle immagini pornografiche è avvenuto proprio per via telematica, ossia tramite uno strumento (internet) ed una procedura (quella di utilizzo di un comune spazio virtuale a cui può accedere contemporaneamente un numero indeterminato di utenti) tali da conferire alla trasmissione delle immagini un grado di offensività senz’altro maggiore rispetto a quello connesso ai normali mezzi di comunicazione, con conseguente riconducibilità della condotta alla più grave ipotesi di cui al terzo comma”.

A seguito di rituale ricorso per cassazione, la Suprema Corte annullava però l’ordinanza del Tribunale, con rinvio per nuovo esame, sostenendo che

“non può ritenersi sufficiente il mero utilizzo della rete internet a far integrare il più grave reato di cui al terzo comma dell’art. 600-ter c.p.   Difatti è la destinazione dell’offerta di materiale pornografico a distinguere il reato previsto dall’art. 600-ter, terzo comma, c.p. da quello previsto dal quarto comma dello stesso articolo.  Se l’offerta è diretta a un indeterminato numero di persone, sussiste il primo reato, se è diretta invece a persone determinate sussiste il secondo, indipendentemente dall’uso, o meno del mezzo telematico.  

Orbene, nel caso di specie il Tribunale del Riesame ha ritenuto invece che sia la natura del mezzo telematico a rendere applicabile comunque l’art. 600-ter, terzo comma, c.p., assunto questo che, alla luce di quanto sopra evidenziato, è certamente errato, dovendosi accertare in concreto quale tipo di connessione telematica è stata usata, e cioè se si sia trattato di una connessione aperta, nel qual caso sussisterebbe l’ipotesi più grave di cui al terzo comma, oppure se si sia trattato di una connessione riservata, il che configurerebbe l’ipotesi meno grave di cui al quarto comma”.

Tornato ad occuparsi della vicenda, il Tribunale dava atto che medio tempore risultavano acquisiti nuovi e più completi elementi di valutazione, anche in base ad una consulenza curata nell’interesse della difesa, tali da portare alla conclusione che la cessione dei dati operata dal Tizio avesse avuto natura privata.   Secondo il collegio,

“posto che l’accesso alla chat in questione è ‘libera’  – per i soggetti che si sottopongono alla procedura di abilitazione all’ingresso, qualificati e riconosciuti a mezzo di nickname e password –  e facilitata da interfaccia grafiche semplici e intuitive, il sistema di comunicazione in tempo reale che si viene a creare, ovvero l’area comune di chat, è limitata ai messaggi di testo, come avviene tipicamente negli spazi comuni messi a disposizione dai server per effettuare questo tipo di connessioni dirette.  Per l’invio di immagini, musica e video e in generale di files non di testo, immagini, musica, video e in generale di files non di testo, invece, la chat mette a disposizione degli utenti la funzione aggiuntiva di ‘trasferimento file’ mediante una procedura che prevede:
–          la scelta del destinatario;
–          l’informazione al destinatario della volontà di trasferirgli il file;
–          l’abilitazione, da parte del destinatario e con apposito comando, della modalità di ricezione del file;
–          la scelta del file da condividere da parte del mittente;
–          l’invio del file.
Può, dunque, affermarsi che l’attività di cessione operata dal Tizio dall’agente provocatore rientri nell’ambito della connessione privata, in quanto egli risulta avere attivato con il solo agente provocatore uno scambio di files a mezzo della specifica procedura descritta.

Le condizioni di contratto prevedono altresì la possibilità di ‘inviare contemporaneamente più files, uno per ogni interlocutore’, con limiti connessi alla velocità del modem e del pc del mittente ed alla opportunità di non intasare la connessione.  Si tratta, comunque, di invio di files sempre a singoli interlocutori prescelti e individuati, che devono attivare la modalità di ricezione.

Qualora le indagini di P.G. avessero rilevato, nel prosieguo, l’effettivo invio contemporaneo di files a più interlocutori, ovvero l’archiviazione  – anche solo temporanea –  dei files trasmessi nella memoria  – oltre che del computer del destinatario –  anche del server per la messa a disposizione di un numero indeterminato di utenti successivi, l’inquadramento della condotta nella categoria della divulgazione / distribuzione di cui al terzo comma dell’art. 600-ter sarebbe stata condivisibile.  Non emergono, tuttavia, siffatte emergenze, sicché appare che la cessione sia stata operata in un contesto di connessione riservata.”

Ne derivava la revoca della misura cautelare, comunque già dichiarata inefficace mesi addietro.  Nel frattempo, il Pubblico Ministero aveva esercitato l’azione penale con richiesta di giudizio immediato, cui aveva fatto seguito il decreto del G.I.P. e la rituale istanza di rito abbreviato avanzata dal Tizio, condizionato all’acquisizione della relazione curata dal dott. MAURO BERTOROTTA, consulente di parte (nonché all’audizione dello stesso C.T.).

Fissata l’udienza camerale, il P.M. contestava all’imputato l’ulteriore delitto di cui all’art. 600-quater c.p., avendo la Polizia Giudiziaria rilevato la presenza di 22 immagini pedo-pornografiche sul disco fisso del computer sequestrato al Tizio, in particolare nella cartella riservata ai c.d. temporary internet files.   Ammesso il rito speciale, che il prevenuto richiedeva anche in ordine al reato meno grave, si dava corso alla integrazione istruttoria sollecitata dalla difesa, e il dott. BERTOROTTA depositava un elaborato con relazione aggiuntiva, analizzando anche l’addebito concernente l’illecita detenzione del materiale accertato da ultimo: il consulente, in sintesi, era dell’opinione che:
–          non potesse affermarsi con certezza la minore età dei soggetti di cui alle immagini, o comunque che il Tizio fosse stato consapevole di quella minore età, sia perché le foto in questione consentivano di arguire soltanto generici tratti somatici dei protagonisti delle scene rappresentate, sia per la garanzia offerta dal sito da cui le stesse immagini erano state copiate (munito della c.d. model age verification);
–          nello scambio di messaggi di testo e foto con “ZZZZZZ” il Tizio non avesse “divulgato” alcunché, essendosi posto in contatto con l’agente sotto copertura in modalità privata, nell’ambito di una chat line senza possibilità per gli altri utenti di accedere a quei dati;
–          il Tizio, fruitore occasionale della rete e soggetto non particolarmente esperto in materia informatica, non sapesse neppure che sul personal computer fossero rimaste le 22 immagini indicate nella contestazione suppletiva, evidentemente da lui visionate ma mai copiate od archiviate.
Le parti rassegnavano quindi le rispettive conclusioni, e questo Giudice si ritirava in camera di consiglio per la decisione.

Muovendo dal dato certo che le condotte materiali furono poste in essere dal Tizio (come si evince dalle indagini compiute per identificare “YYYYYY”, sopra illustrate, dall’analisi del pc in uso all’imputato e dalle sue stesse ammissioni), il primo problema da affrontare è se le fotografie di cui ai capi A) e B) della rubrica –  29 in tutto –  costituiscano davvero materiale pornografico realizzato mediante lo sfruttamento di minori di 18 anni.    Tra le varie immagini, ve ne sono alcune in cui mancano scene di rapporti sessuali in atto, rappresentando magari solo soggetti nudi; ed altre invece indubbiamente pornografiche, secondo la comune accezione del termine.   Su un piano di accertamento obiettivo, è palese che non vi sia alcuna base scientifica per sostenere che quel ragazzo o quella ragazza abbia 16 anni, piuttosto che 19, ed è pertanto necessario ricorrere ad un prudente apprezzamento per giungere a delle conclusioni ragionevolmente certe: apprezzamento che potrà ben fondare una valutazione di penale responsabilità dell’imputato  – ricorrendone gli altri, necessari presupposti –  anche in difetto di prova dell’esatta identità o del preciso anno di nascita di colui o colei che possa senz’altro intendersi infradiciottenne.

Per fatto notorio di comune conoscenza, l’età di una persona ritratta in un’immagine od un filmato può essere desunta dall’analisi del viso e della corporatura, ed in particolar modo dal grado di sviluppo degli organi sessuali.  Analizzando le foto, e distinguendo quelle “sicuramente pornografiche” dalle altre, i soggetti delle seconde debbono tranquillamente ritenersi minorenni, mentre i protagonisti delle prime possono talora sembrare  – ad una diretta comparazione –  un po’ più grandi.

Ad esempio, quanto alle 22 immagini nella cartella dei files temporanei sul portatile del prevenuto, è a dir poco inequivoco che “//////” (di cui alle foto “//////129” e “//////131”, nn. 4 e 13) sia appena una ragazzina, ed è assurdo pensare che abbia compiuto 18 anni anche il soggetto maschio della foto n. 19: i tratti del volto e del corpo di entrambi, oltre alle caratteristiche dei genitali, non lasciano dubbi.    Ipotizzando un sapiente maquillage ed alcuni trucchi fotografici, con una certa fantasia, è invece possibile che le ragazze di cui alle scene di sesso orale delle foto nn. 3, 9 e 16 siano maggiorenni: significativamente, alcune di loro indossano una specie di uniforme da collegiale, atta a stimolare qualche curiosità morbosa, e può darsi che con abiti normali quelle giovani si rivelino più adulte.   Non di meno, vi sono anche scene di sesso esplicito che riguardano sicuri minorenni, come quella di cui alla foto n. 18, che vede una bambina o poco più sopra un uomo maturo con tanto di barba.

Analoghe considerazioni possono farsi a proposito delle 7 immagini inviate dal Tizio a “ZZZZZZ” nel giugno 2001: ad esempio le ragazzine delle foto “orgy4” e “orgy1”, senza un seno sviluppato e di piccolissima corporatura, sono innegabilmente minori, e lo stesso è a dirsi per le altre giovani delle foto “famili”, sia pure se ritratte parzialmente di spalle.     Per questo gruppo di immagini non è peraltro possibile distinguere tra foto certamente pornografiche e foto di semplice esibizione di nudità, essendo tutte rappresentative di atti sessuali: del resto, chi scrive reputa che una scena ritraente ragazzini nudi, sia pure se non impegnati in rapporti sessuali veri e propri, debba comunque meritare una qualificazione in termini di pornografia, in quanto radicalmente priva di connotazioni lato sensu erotiche.    Non sarebbe pornografica solo un’immagine ricavata da un contesto ludico ed accessibile ad una cerchia determinata di persone, come quella di chi scatti la foto ad un figlio o ad un nipote che fa il bagno.

Ciò posto, e data l’evidenza della minore età della totalità o quasi dei soggetti ritratti nelle 29 fotografie in rubrica, non hanno pregio le considerazioni difensive sulla “buona fede” del Tizio, a suo dire convinto che le attestazioni di questo o quel sito sull’età dei protagonisti delle scene meritassero attendibilità, o che la notorietà di un sito accessibile a chiunque, magari in quanto commerciale, fosse ex se tranquillizzante sulla liceità del suo contenuto.   In particolare, nelle memorie difensive si legge che l’imputato avrebbe visionato almeno parte di quelle foto sul sito www.sito.com, e non certo su indirizzi più o meno nascosti di sesso mercenario o pedofilia.  

Tuttavia, a fronte di dichiarazioni o presunte garanzie (come la ricordata model age verification), non esiste alcuna certezza che gli accertamenti sull’età di una “modella” rispondano alla realtà dei fatti: e sarebbe sin troppo facile per il gestore di un sito, operante a chiare lettere nel settore del sesso praticato da persone molto giovani, difendersi da potenziali addebiti allegando di aver compiuto quelle verifiche, ben sapendo che di una foto versata su internet è comunque arduo risalire all’origine, ai tempi e luoghi in cui venne scattata ed ai soggetti ivi rappresentati.    Al contrario, chi scelga  – come il Tizio –  di collegarsi ad un sito con un nome del genere lo fa appositamente per vedere “lolite”, e non si cura affatto di avere quelle garanzie: anzi, sapere che una ragazza di 20 anni vi appare truccata da 15enne tradirebbe probabilmente le sue aspettative.

Le foto sono dunque pornografiche, ritraggono minori ed il Tizio era bene in grado di accorgersene, avendole financo selezionate per quel motivo: resta da vedere se egli divulgò (art. 600-ter comma 3 c.p.) o cedette (art. 600-ter comma 4 c.p.) le prime 7, e se per le altre 22 sia possibile parlare di vera e propria detenzione consapevole.

In ordine al primo dei due quesiti ora accennati, l’excursus riassunto in precedenza a proposito delle vicende della misura cautelare dà contezza dell’impossibilità di configurare il più grave reato di cui al terzo comma dell’art. 600-ter c.p.: nel rapporto tra il Tizio e l’agente sotto copertura vi fu una cessione del materiale pornografico, perché l’invio rimase confinato in uno scambio di dati tra due utenti ben determinati, e il suddetto materiale non venne ipso facto messo a disposizione di altri.   Secondo quanto desumibile dagli atti ed ormai pacifico anche in base agli elaborati tecnici, la chat “C6” è un servizio di messaggeria istantanea, fornito dalla società SEAT PAGINE GIALLE e che permette a più persone di entrare simultaneamente in comunicazione tra loro, consentendo lo scambio di messaggi di testo, di immagini e video, oltre che collegamenti audio e video; le conversazioni in “C6” possono però avvenire tra un numero indeterminato di persone o tra due soli soggetti, ipotesi questa che si realizza quando viene attivata la modalità “privato”.

E questo è ciò che accadde tra “YYYYYY” (il Tizio) e “ZZZZZZ” (l’agente della Polizia Postale), con uno dei due che cliccò sul nickname della persona con cui voleva conversare in via esclusiva; da lì in poi, anche se fosse stata in atto contemporaneamente una comunicazione in una “stanza pubblica” della chat, quel contatto tra i due interlocutori che si erano “scelti” continuò con modalità non accessibili a terzi.   Mutuando gli insegnamenti della Corte di Cassazione dettati in casi di contestazione del reato ex art. 600-ter c.p. a fronte di un “dialogo privilegiato” tra due utenti di internet, è già stato escluso

“che tale trasmissione diretta tra due utenti, i quali devono essere necessariamente d’accordo sulla trasmissione del materiale, configuri senz’altro una divulgazione o distribuzione ai sensi del terzo comma della norma citata. Ed invero tali attività implicano la comunicazione con un numero indeterminato di persone (..), quale l’uso del veicolo internet non vale di per sé ad assicurare.

Né ad integrare il numero indeterminato di persone è sufficiente la considerazione che esso possa annidarsi in un nickname, perché  – anche a prescindere dall’onere della prova, che l’accusa non può assolvere con la mera evocazione di tale possibilità – altrimenti verrebbe ad ipotizzarsi il delitto in esame – piuttosto che (..) quello più lieve, di cui al quarto comma – anche nel caso dell’invio della foto, allegata ad un messaggio di posta elettronica, ad un indirizzo determinato, dietro il quale ugualmente potrebbe allocarsi una pluralità di persone.

Perché vi sia divulgazione o distribuzione occorre, invece, che l’agente inserisca le foto pornografiche minorili in un sito accessibile a tutti, al di fuori di un dialogo ‘privilegiato’, o le invii ad un gruppo o lista di discussione, da cui chiunque le possa scaricare, o le invii bensì ad indirizzi di persone determinate ma in successione, realizzando cioè una serie di conversazioni private (e, quindi, di cessioni) con diverse persone (..).

Di conseguenza, quando la cessione avvenga (..), attraverso un canale di discussione (cosiddetta chat line), è necessario verificare, al fine della contestazione dell’ipotesi del terzo comma, se il programma consenta a chiunque si colleghi la condivisione di cartelle, archivi e documenti contenenti le foto pornografiche minorili, in modo che chiunque possa accedervi e, senza formalità rivelatrici di una sua volontà specifica e positiva, prelevare direttamente le foto. 

Laddove, invece, il prelievo avvenga solo a seguito della manifestazione di volontà dichiarata nel corso di una conversazione privata, si versa nell’ipotesi più lieve di cui al quarto comma.”[1]

Come più volte ricordato, il servizio “C6” non consentiva alcuna divulgazione automatica o immediata di quanto scambiato tra due dialoganti in modalità privata, e dunque  – all’esito delle indagini compiute –  nella condotta del Tizio deve ritenersi configurabile il reato di cui all’art. 600-ter comma 4 c.p.

Non osta alla declaratoria di penale responsabilità dell’imputato il rilievo che le 7 fotografie pornografiche vennero da lui inviate su sollecitazione dell’agente sotto copertura, che operava dietro la menzionata autorizzazione ai sensi dell’art. 14 legge n. 269/1998.    In tali casi, infatti, la P.G. non ha meri compiti di controllo ma funge da vero e proprio “agente provocatore”, con l’unico limite di non determinare nel soggetto “provocato” un proposito criminoso altrimenti inesistente: e che il Tizio fosse già disposto di suo alla violazione delle norme in esame emerge ictu oculi dal contenuto della conversazione, dal tipo di materiale inviato e dalle modalità di trasmissione.

Infatti, se è vero che “ZZZZZZ” apparve all’imputato come una disinvolta adolescente, palesando curiosità piuttosto pruriginose e chiedendogli financo immagini di cui il Tizio non disponeva, è altrettanto vero che l’imputato  – quasi temesse di fare brutta figura –  pensò bene di inviare un variegato campionario di fotografie, ritraenti contatti sessuali cui la sua presunta interlocutrice non aveva fatto alcun riferimento.

Visto che si è raggiunta la conclusione della commissione da parte del Tizio di un reato ex art. 600-ter comma 4 c.p., va poi tenuto presente che il ricordato art. 14 legge n. 269/1998 consente quel tipo di attività sotto copertura per finalità di prevenzione e repressione di peculiari delitti, tra cui quello appena ritenuto non rientra.   Non di meno, la valutazione sulla sussistenza di un fumus quanto ai reati che legittimano il ricorso a tali modalità investigative deve essere compiuta al momento dell’autorizzazione emessa, non già della verifica dei risultati conseguiti: e se all’epoca del decreto dell’A.G. esistevano indizi di reità per fatti più gravi, quanto meno per ipotizzare un addebito ai sensi dell’art. 600-ter comma 3 c.p., ciò è già sufficiente a ritenere legittimo il ricorso all’operazione sotto copertura, nonché lecita ed utilizzabile la prova ottenuta per tale via, anche se nel giudizio di merito la condotta in questione debba essere qualificata in termini di minore gravità.    Nel caso di specie, tanto emergevano i profili del più grave reato da portare il P.M. a chiedere ed ottenere una misura cautelare, mantenendo la contestazione del delitto de quo fino all’atto di esercizio dell’azione penale.

Si badi, peraltro, che ritenere il reato di cessione a fronte di un capo d’imputazione che contesta una divulgazione o distribuzione non significa che la prova raccolta in un dato procedimento viene utilizzata in uno diverso: il procedimento è e rimane unico, senza derivare da stralci più o meno formali[2], ed unica  – perché ancorata al momento in cui il decreto venne emesso –  resta la valutazione sulla sussistenza dei presupposti per dare corso all’attività consentita dal più volte citato art. 14.

Quanto alle immagini estratte dalla Polizia Postale dalla memoria del disco fisso del pc del Tizio, deve invece condividersi l’assunto della difesa: non è adeguatamente provato che l’imputato fosse un utente di internet così evoluto da sapere che ogni immagine, sia pure visualizzata per un tempo minimo sul monitor, rimane immagazzinata nella cartella dei cosiddetti “files temporanei”.

Quella cartella, in vero, non risponde a finalità di archivio in senso stretto, ma ha l’unica finalità di rendere più rapido l’accesso ad un sito (e ad un documento) già visionato, ove si decida di accedervi di nuovo: si tratta dunque di una sorta di memoria invisibile del computer, che solo persone di particolare abilità e con strumenti tecnici adeguati sono in grado di riportare alla luce, a differenza della c.d. “cronologia” dei siti visitati.    Anche utenti medi di internet sanno, ma comunque non è provato che il Tizio lo sapesse, che ogni programma di navigazione in rete (Netscape, Internet Explorer, ecc.) prevede una “cronologia” dei documenti scaricati sul video, sia pure non archiviati o salvati su disco: per alcuni giorni, con un periodo di conservazione che l’utente può impostare a sua scelta, quei documenti rimangono di pronto accesso, e sono visibili anche  in modalità “non in linea”, cioè a prescindere da una nuova navigazione.   In quel caso, e fino alla scadenza del termine impostato, vi è perciò una vera e propria forma di detenzione di quel materiale (ovviamente, su supporto informatico, non essendone necessaria la stampa su carta), perché  conservato e immediatamente fruibile: ma non altrettanto accade con la cartella dei temporary internet files, con l’utente che non può normalmente riaccedere a quei dati ed il più delle volte neppure sa di averne conservato traccia.

In definitiva, è certo che il Tizio visitò i siti da cui trasse le 22 immagini indicate al capo B), immagini che vide riprodotte sul suo schermo; è altrettanto certo che non ne fece una copia da archiviare nelle normali cartelle del disco fisso.   E’ possibile che per qualche tempo le foto in questione rimasero nella “cronologia” del pc, ma può anche darsi che l’imputato non avesse impostato affatto termini di conservazione, e così pure che non fosse consapevole di quella modalità di archiviazione automatica e temporanea; non è comunque provato che sospettasse l’esistenza dei files temporanei di internet.

Si impone pertanto l’assoluzione del Tizio dal reato di cui al capo B), con la formula indicata in dispositivo.   L’imputato deve invece essere dichiarato colpevole del delitto di cui all’art. 600-ter comma 4 c.p., così derubricando la fattispecie sub A).  E’ evidente, per la contestualità ed omogeneità delle condotte di cessione del materiale pornografico, l’unicità del disegno criminoso, e risulta altresì l’occasionalità della condotta (realizzata in una sola circostanza, a parte i diversi fatti accertati a Palermo e che comunque non sono contestati in questa sede): appare pertanto conforme a giustizia irrogare una pena base che sia soltanto pecuniaria, in quanto alternativa alla reclusione secondo le previsioni di legge, pena base che può indicarsi in € 3.600,00 di multa.   

L’imputato, non foss’altro per l’incensuratezza e per  le pur parziali ammissioni di responsabilità, merita la concessione di attenuanti generiche, con la conseguente riduzione di pena fino ad € 2.400,00 di multa.   Per effetto della ravvisata continuazione, la pena potrà aumentarsi fino a 3.000,00 euro (in ragione di 100,00 euro per ogni ulteriore fotografia inviata, dopo la prima); con la riduzione per la scelta del rito si perviene alla pena finale di € 2.000,00 di multa.

Non si ravvisano ragioni ostative al beneficio della non menzione.

Si impone la restituzione all’imputato di quanto in sequestro, non essendovi nulla di intrinsecamente illecito, ad eccezione del computer portatile, appartenente a soggetto diverso.

La complessità del processo rende infine necessario dilatare al massimo il termine previsto per il deposito della motivazione della sentenza.

P.  Q.  M.

     Il Giudice per le Indagini Preliminari;
     visti gli artt. 442, 521, 533 e 535 c.p.p.
DICHIARA
Tizio
colpevole del reato ex art. 600-ter a lui ascritto, qualificato ai sensi del comma 4 della norma citata, e  – in costanza di attenuanti generiche, ritenuta la continuazione fra le condotte contestate e con la riduzione di pena prevista per la scelta del rito –  lo

CONDANNA
alla pena di euro 2.000,00 di multa, nonché al pagamento delle spese processuali;
     visto l’art. 175 comma 2 c.p.
CONCEDE
a
Tizio
il beneficio della non menzione della condanna;
     visti gli artt. 442, 530 comma 2 c.p.p.
ASSOLVE
Tizio
dall’imputazione ex art. 600-quater a lui ascritto, perché il fatto non costituisce reato;
     visto l’art. 263 c.p.p.
ORDINA
la restituzione all’imputato di quanto in sequestro, ad eccezione del computer portatile “Toshiba” e relativi accessori, di cui ordina la restituzione alla nomesocietà di Sempronia Tizio, corrente in ********, ***********;
     visti gli artt. 442, 544 comma 3 c.p.p.
INDICA
in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione.
Perugia, 08.07.2003
Il  Giudice dott. Paolo Micheli
[1] Cass., Sez. V, 11 dicembre 2002 – 3 febbraio 2003, n. 4900
[2] Sul punto, v. Cass., Sez. III, 8 maggio – 21 ottobre 2003, n. 904, le cui motivazioni sono intervenute dopo la pronuncia del presente dispositivo. Per gentile concessione di Penale.it

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