Meta e il problema della “mercificazione” dei diritti

Il colosso dei social network, dopo aver abbandonato gli nft, deve affrontare le azioni giudiziarie della corte olandese e di Milano in materia di privacy degli utenti che evidenziano le criticità del modello industriale dei colossi tecnologici e la tendenza a considerare i diritti beni che possono essere scambiati di Andrea Monti – inizialmente pubblicato su Wired.it

Il 13 marzo 2023 Meta annuncia l’abbandono del supporto ai NFT su Facebook e Instagram. La notizia arriva dopo quella risalente a circa un anno fa della  rinuncia a Diem, la criptovaluta “proprietaria” destinata ad essere la “moneta” dell’ecosistema social. Praticamente nello stesso momento, la sua filiale irlandese deve gestire le conseguenze della decisione emessa il 15 marzo 2023 da una corte olandese che rileva l’assenza di base giuridica per la pubblicità basata sulla profilazione comportamentale degli utenti. Inoltre, dal febbraio 2023 la Procura di Milano sta indagando su una asserita violazione delle norme IVA perché, ritiene, consentire la fruizione dei servizi in cambio dei dati dell’utente è non una transazione gratuita ma ha valore economico e dunque deve essere tassata. Anche il progetto metaverso non se la passa molto bene: gli investitori non sono entusiasti — Bloomberg lo definisce un “moonshot”— e le perdite finanziarie sono molto consistenti.

Per quanto possano provocare scalpore, questi eventi non sono di per sé particolarmente sconvolgenti. Tutto sommato, infatti, nella versione Big Tech del Monopoli  potrebbero ben essere carte del mazzo “imprevisti” o di quello delle “probabilità”. Un’impresa che basa la propria crescita sull’innovazione, specie se opera in contesti altamente complessi, “scommette” di continuo su progetti che hanno conseguenze disruptive. Quindi deve mettere in conto la necessità di adottare approcci non convenzionali o di “forzare la mano” in nome dell’adagio “meglio chiedere perdono che permesso”. A volte si vince, a volte no, ma quello che conta è in mano a chi rimangono le fiche quando si “chiama il giro” e ci si alza dal tavolo.

Tuttavia, Meta e gli altri componenti di Big Tech non sono aziende “normali” perché nel mercato della dematerializzazione della realtà e delle relazioni umane sono in grado di innescare in tempo praticamente reale delle reazioni a catena dalle conseguenze su larga scala imprevedibili e ingovernabili non solo in ambito economico, ma anche a livello politico e sociale.

Anche solo il semplice annuncio di avere trovato la Next Big Thing (senza nemmeno avere la disponibilità di un prototipo) crea prodotti e servizi “me too e il relativo indotto che però non necessariamente resistono alla prova del tempo. Possono tradursi, su scala meno globale, in iniziative che avvantaggiano chi vende pale ai cercatori d’oro essendo irrilevante se poi tutto quello che si estrae dalla miniera è soltanto pirite. L’isteria generata da blockchain e NFT è l’ultimo —ma non certo l’ultimo— esempio di questo fenomeno. Ora che Meta si è chiamata fuori da questi due ambiti rimane solo da chiedersi quando (“quando”, e non “se”) quelle che erano state strumentalmente presentate da spregiudicate strategie di marketing come rivoluzioni verranno definitivamente archiviate come buone idee applicate male o tenute in vita su una scala dimensionale incompatibile con la loro effettiva utilità. Nel frattempo, tuttavia, il resto del mondo (occidentale) ha sprecato tempo, soldi e risorse per inseguire un futuro soltanto immaginato e mal percepito.

Una analoga mancanza di prospettiva affligge le critiche mosse contro Big Tech “in nome della privacy” e sintetizzate nella decisione della corte olandese con effetti paradossali. In estrema sintesi, i giudici hanno ritenuto che gli utenti di Facebook non fossero stati sufficientemente informati sul cosa sarebbe stato fatto dei loro dati personali e che il trattamento delle informazioni per finalità pubblicitarie non costituisce un elemento “necessario” per l’erogazione del servizio che consiste nel mettere a disposizione un “profilo” per collegarsi ad altre persone. Da qui, argomentano i giudici, deriva l’assenza di base giuridica per usare i dati in questione e, ritengono i promotori dell’azione legale, il diritto degli utenti a ottenere un indennizzo.

In forza di questa sentenza sarà interessante vedere su che base gli utenti chiederanno di essere risarciti. Se, infatti, invocheranno di avere subito un danno ne dovranno dimostrare l’esistenza e dovranno quantificarlo, il che non sarà sempre semplicissimo. Se, invece, chiederanno di essere pagati perché i loro dati hanno valore economico (e qui il tema interseca l’indagine milanese) si apre il tema della valorizzazione dei dati personali che dovrà essere, necessariamente, calcolata su base individuale. Anche in questo caso non sarà semplicissimo fare i conti perché si dovrebbe stabilire un criterio per differenziare le singole persone. In una prospettiva del genere, infatti, è evidente che i dati di soggetti con maggiore capacità economica o propensione all’acquisto hanno un valore maggiore di quelli relativi a persone più avvedute o meno abbienti. Dunque, un’azione del genere potrebbe avere degli effetti inaccettabilmente e paradossalmente discriminatori che sono esattamente quelli che i promotori dell’azione legale volevano combattere.

Quale che sia l’opzione scelta dagli utenti olandesi per procedere con le loro rivendicazioni, è evidente che  ad essere socialmente discutibile è il presupposto dell’azione legale contro Meta. Se tutto si riduce a una questione di “informazione degli utenti”, “acquisizione del consenso” e, al limite, “pagamento per acquisire i dati” o il diritto di trattarli, la partita dei diritti fondamentali è persa in partenza.

Come anche altri esponenti di Big Tech, Meta (nomen, omen) è andata oltre la semplice profilazione basata su interessi, hardware utilizzato dall’utente, luoghi, tempi e durata delle connessioni e analisi dei contenuti prodotti e consultanti. Questi, oramai, sono residui del passato dei quali si occupano solo legislatori e autorità indipendenti che faticano a comprendere il presente ma pretendono di regolarlo sulla base della loro parziale percezione della realtà.

Il behavioural advertising al quale si riferisce la sentenza olandese, infatti, è molto di più della semplice e semplicistica definizione adottata, per esempio, dall’Office of the Privacy Commissioner of Canada che lo definisce “posizionamento di annunci pubblicitari basati sul tracciamento dei dati raccolti su svariati siti web non collegati fra loro”*. Il nudging ampiamente utilizzato per esempio dal governo inglese durante la fase acuta della pandemia— e gli altri strumenti messi a punto dalla behavioural economics vanno ben oltre i pericoli miopicamente intravisti dal “capitalismo della sorveglianza”.

A preoccupare non dovrebbe essere il “tracciamento” degli utenti ma la possibilità di influenzarne il comportamento nel suo complesso e non la singola scelta individuale. Poco importa sapere quali siano il nome e il cognome dell’utente che sta dietro il monitor di un computer al quale è assegnato un IP. Ciò che conta è sapere se è sempre lui che lo sta utilizzando per condizionare il modo in cui agisce, non quello in cui pensa. Su questo palco le norme a “tutela della privacy” e dei dati personali non sono nemmeno delle comparse perché, giuridicamente, presuppongono che la piattaforma di turno abbia identificato o possa identificare l’utente, altrimenti i meccanismi di protezione non possono entrare in funzione. Le autorità nazionali di protezione dei dati se ne sono rese conto e, come quella italiana, stanno forzando l’interpretazione della legge per rimediare al “buco” normativo, ma la toppa non è migliore del buco. 

Gli eventi che stanno riguardando Meta hanno una valenza molto più ampia della semplice vittoria (di Pirro) in una causa o in un’indagine.

Da un lato evidenziano la crescente criticità del modello industriale basata sulla immaterialità dei prodotti e dei servizi e pongono il problema della sostenibilità sul lungo periodo di strategie basate sul “tirare il sasso nello stagno” e vedere l’effetto che fa. Dall’altro confermano la tendenza alla “commodificazione” dei diritti —cioè alla loro trasformazione da prerogative intoccabili della persona o “oggetti” che possono essere scambiati.

Fra le due criticità, è la seconda a suscitare più preoccupazione perché se i diritti diventano un bene commerciabile vuol dire che possono essere tolti alle persone e accumulati nelle mani di un numero ristretto di soggetti privati che, come tali, rispondono solo a loro stessi e acquistano il potere di decidere cosa sia un diritto, quale ne sia il contenuti e a chi può essere attribuito.

Questo è il paradosso creato dall’illusione dei diritti digitali che con l’intenzione di proteggere l’individuo dall’invasione dei poteri pubblici e privati, lo sta spingendo in una gabbia che sarà anche dorata, ma rimane sempre un luogo con le sbarre a porte e finestre, le cui chiavi per la libertà sono nelle mani di chiunque, tranne che dell’inconsapevole recluso.

* n.d.r.: la traduzione non è ufficiale.

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