Il “non-problema” della age-verification

Nel nebbioso mare magnum dei presunti “nuovi problemi” causati dalle piattaforme digitali ogni tanto si intravede, come l’Olandese Volante, la “age verification”, lo strumento invocato per “proteggere i minori” dall’esposizione a “contenuti inappropriati” che però, immancabilmente, crea “problemi di privacy” e dunque va regolato con cautela se non addirittura vietato di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato in Strategikon – un blog di Italian Tech

Per quanto l’uso di una lingua straniera possa far pensare di essere di fronte a una questione nuova (e)o relativa soltanto a contenuti con larga base di utenti ma “vietati ai minori”, non è così. Essa coinvolge alla radice, infatti, il modo in cui i modelli commerciali dei servizi internet sono stati pensati e messi in pratica fin dagli inizi e la perdita di ruolo del diritto, trasformato in merce di scambio come un qualsiasi altro prodotto.

La necessità di verificare l’età di chi stipula un accordo esiste, in Italia, dal 1942 cioè da quando è stato emanato il Codice civile. Vale per ogni contratto, e dunque anche per offre servizi tramite reti di comunicazione elettronica e per chi li usa, a prescindere dal fatto che sia prevista una contropartita in soldi, dati o che la fruizione sia gratuita.

Dunque, per risolvere il rapporto problematico fra minori e servizi basati su contenuti inappropriati basta applicare (possibilmente in italiano) una normativa già esistente. È quello che fece già negli anni ‘90 —dimostrandosi pionieristica anche in questo— la gloriosa MC-link. A differenza di altri operatori che consentivano la registrazione senza alcun controllo, MC-link chiedeva la copia di un documento di identità come condizione per attivare i servizi. Inoltre, il contratto prevedeva che il cliente fosse responsabile dell’uso corretto del servizio di accesso, adottando le cautele necessarie ad evitare abusi. Ciascuno, in altri termini, doveva fare la propria parte. Certo, tutto si può falsificare e la fotocopia di un documento non è il massimo della garanzia (e, tuttavia, ancora oggi l’acquisto di una SIM richiede lo stesso adempimento). Tuttavia, il punto è che qualcuno, all’epoca, si era posto il problema di rispettare la legge a costo di perdere utenti.

Il diritto dei contratti regola anche il caso specifico dei minori. Da un lato, i genitori sono giuridicamente responsabili degli atti compiuti dal figlio e se questi, a loro insaputa, “mette una firma” o seleziona una casella di spunta su un form online, essi hanno il diritto di far annullare l’accordo. In parallelo, i genitori hanno l’obbligo (ancora in vigore, almeno così risulta) di  controllare i comportamenti delle persone sulle quali esercitano la potestà giuridica. Il “combinato disposto” di queste regole è che un minore non può stipulare in autonomia dei contratti e che spetta ai genitori fare in modo che non si metta nei guai o che non ne provochi.

Dunque, una volta tradotte in italiano le parole “age-verification”, è facile rendersi conto che la soluzione al problema è già ampiamente disponibile: i servizi devono essere erogati soltanto a utenti maggiorenni, la cui età può essere verificata anche indirettamente. È, per esempio, quello che fa Amazon quando sostituisce l’esibizione della carta di identità con il numero di carta di credito o l’indicazione di un conto corrente bancario del quale è titolare il cliente.

Ma allora perché stiamo ancora parlando del se verificare o meno l’età di chi utilizza un servizio invece di farlo utilizzando gli strumenti normativi già disponibili?

La risposta non riguarda i soli servizi di comunicazione elettronica, ma —più in generale — il mutamento forzato dei minori in consumatori di beni e servizi, che ha reso indispensabile convincere gli adulti della non necessità del loro ruolo, e credere che sia antistorico impedire ai minorenni di “fare da soli”.

Dunque, non va bene inserire barriere di ingresso che tengono fuori utenti perché si riducono i guadagni; non è politicamente presentabile dire ai genitori che invece di lamentarsi dovrebbero fare il proprio dovere, e questi ultimi non amano essere richiamati ai propri obblighi morali, prima ancora che giuridici.

Era il dicembre 1996 quando presentai questo argomento al Consumer Forum Intergroup del Parlamento Europeo, ma a distanza di quasi trent’anni siamo ancora a parlare della stessa cosa, ma con una differenza sostanziale. Allora il dibattito pubblico non era (troppo) condizionato dalle necessità commerciali e quindi ruotava attorno a grandi temi come il rapporto fra libertà di espressione e anonimato nella fruizione di contenuti di varia natura. Tuttavia, in quelle che poi sarebbero diventate Big Tech (e non solo) era già presente l’interesse a capire come creare ed espandere a tutti costi un “mercato” per vendere di tutto a chiunque.

Con il passare del tempo fu sempre più chiaro che il successo commerciale dei servizi di comunicazione elettronica e delle piattaforme passava per l’attenuazione —o meglio, la cancellazione— dei diritti. La gabola “internet gratis”, sulla quale è stato costruito il sistema distopico nel quale viviamo, avrebbe funzionato molto meno bene se, fin dall’inizio, a fianco della bandiera del “libero per tutti” fosse sventolata quella della responsabilizzazione individuale.

Se (ancora) oggi abbiamo il problema di “tutelare i minori” dalla disponibilità di contenuti “inappropriati” la responsabilità è di chi, per ragioni di profitto, ha spregiudicatamente scelto di non seguire delle regole sacrosante, ma anche di chi per interesse politico ha omesso di farle rispettare, e per ignoranza o pigrizia ha abdicato ai propri doveri.

È, dunque, amaro constatare che il dibattito pubblico sulla “age verification” sta riguardando questioni relative alla “privacy” o al “free speech” invece di riflettere sul senso mutato che la parola “diritto” ha assunto nel nostro tempo.

Da strumento di mediazione di opposte visioni del mondo, il diritto è diventato (nella mente degli individui) il vessillo in nome del quale imporre la prevalenza delle proprie convinzioni individuali. In parallelo (o forse a causa loro), nelle strategie di Big Tech ha rappresentato un ostacolo da abbattere in nome di un’idea di progresso che ha molto più a che fare con la schiavitù elettronica delle persone indotta da un senso di libertà assoluta inebriante quanto artificiale, che con il miglioramento delle loro condizioni di vita.

Sarebbe facile concludere questo articolo parlando retoricamente dei “deboli” che rimangono schiacciati da una morsa le cui ganasce sono rappresentate da edonismo individuale e ricerca del profitto. Ma sarebbe una spiegazione troppo semplicistica e, tutto sommato, ipocritamente autoassolutoria. Significherebbe accettare l’ineluttabilità della situazione e giustificare in nome del “business as usual”, il continuare a lamentarsi, da un lato, dei “rischi per i minori” ma poi, dall’altro, incentivarli a tenere gli stessi comportamenti, anzi, legittimandoli.

“Business as usual”, appunto.

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