D’ognuno disse mal, fuorché di Cristo…

… scusandosi col dir “non lo conosco. L’epigrafe sulla tomba di Pietro Aretino sarà anche stata scritta a metà del XVI secolo, ma è la perfetta descrizione dello stato di inquisizione permanente nato nelle vecchie aree FidoNET e sui newsgroup, cresciuto nelle chat e nei social network e, da qualche tempo, imperante sui media generalisti che lo hanno utilizzato come scappatoia per liberarsi dalla fatica di fare informazione di Andrea Monti – inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech.

L’osservazione empirica della pubblicistica professionale rileva, a questo proposito, quattro approcci concorrenti: il frequente disinteresse per il rigore qualitativo delle informazioni, la sistematica ricerca della polarizzazione, la eccessiva prevalenza dell’opinione individuale sulla ricerca dei fatti, la non rara trasformazione degli spazi informativi in “tribune” dalle quali arringare, pur con stili fortemente differenziati, lettori, spettatori e ascoltatori.

Il dibattito scatenato in questi giorni sull’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario è un esempio che meriterebbe di essere studiato nei corsi di giornalismo e di comunicazione.

La norma si occupa del regime al quale deve essere sottoposto un condannato cioè una persona che ha esaurito i gradi di giudizio previsti dalla legge e che, in forza di una sentenza passata in giudicato deve scontare la pena irrogata dal giudice.

Nel sistema penale, la sentenza punisce il responsabile di un reato sulla base di tre elementi: la retribuzione (cioè la “vendetta” della vittima per mano dello Stato: tanto male hai fatto, tanto male devi subire), la rieducazione (cioè la capacità della pena di far comprendere al reo la gravità della propria azione) e —secondo l’articolo 133 del Codice penale— la gravità del reato in funzione degli effetti della pena. L’ordinamento carcerario, invece, si occupa del come deve essere scontata la condanna, in funzione di quanto è stato stabilito dalla sentenza e di altri parametri come, appunto, le necessità preventive individuate dal “41-bis”.

La questione è estremamente complessa, ma spiegata in questi termini diventa sufficientemente chiara per farsi un’opinione, quale che sia, sui casi che stanno dominando le cronache di questi giorni sulla base di tre elementi essenziali: il “41-bis” non è una pena ulteriore rispetto a quella decisa con la condanna, è tecnicamente corretto che la sua applicazione spetti al Ministro della giustizia, la decisione di applicarlo non è legata alla gravità del reato commesso ma al rischio che se ne commettano in concorso o in associazione con altri che sono in stato di libertà.

Eppure, al netto della questione politica che non è oggetto di questo articolo, i media generalisti hanno affrontato la componente tecnico-giuridica in modo quantomeno frettoloso, liquidando il “legalese” in qualche battuta per poi far partire la giostra delle opinioni. Così, alcune argomentazioni hanno confuso il ruolo della sentenza e quello della sua esecuzione, parlando di “ingiustizia” dell’alleggerimento del regime carcerario a chi “ha sciolto bambini nell’acido”. Altre hanno dimostrato di non comprendere le differenti necessità di prevenzione dei reati politici e reati comuni, affermando spavaldamente che il 41-bis non si tocca, così pregiudicando la possibilità di rendere più efficiente l’azione preventiva contro fenomeni di radicalizzazione ideologica. Altre ancora hanno candidamente sostenuto l’idea estranea al motivi per il quale fu emanata la norma, che essa serve per indurre i criminali a “pentirsi” (termine quantomeno improprio perché la collaborazione di giustizia serve per acquisire informazioni necessarie a processsare altri delinquenti, non per avviare un percorso di “redenzione morale” del recluso).

Il diffuso disinteresse per il rigore qualitativo delle informazioni sulle quali costruire un dibattito diventa funzionale alle esigenze di polarizzazione: vengono chiamate a pronunciarsi sulla “questione del giorno” persone che non hanno bisogno di essere competenti sull’argomento perché basta il “secondo me” pronunciato dall’alto del ruolo che rivestono (politico, giornalista, imprenditore e via discorrendo); oppure “esperti” che parlano ex cathedra invocando il principio di autorità, applicato con la violenza dell’argumentum ad baculum —il metodo del bastone. L’imprecisione e l’assenza di tecnicità consentono l’avvio di un infinito rimpallo di “precisazioni”, “eccezioni” e “contestazioni”, su un palco calcato da una sorta di compagnia di giro il cui copione prevede di esprimersi su qualsiasi argomento  —come avrebbe detto il Principe— “a prescindere”. Il tutto è funzionale, una volta consolidata la narrativa dominante, a mettere da parte  il ruolo dello spirito critico per cui chiunque sostiene posizioni diverse viene aggredito verbalmente (o cortesemente rimbrottato a seconda dello stato soggettivo del partecipante).

Migrato dalla dimensione dei social network a quella dell’informazione professionale, questo fenomeno si è dimostrato utile alla necessità di essere permanentemente “on air” e “on line”, cioè di occupare ogni singolo secondo degli 86.400 che compongono una giornata, senza dover sostenere i costi di una redazione dalle competenze estese, della costruzione di programmi basati su informazioni verificabili, e sul coinvolgimento di ospiti “noiosi”.

Queste necessità, essenzialmente legate alla lotta per accaparrarsi spettatori e dunque “numeri” per negoziare i costi delle interruzioni pubblicitarie, sono soddisfatte tramite l’esacerbazione dell’idea di  “televoto” e della trasformazione dello spettatore in “giudice popolare”.

In fasi progressive (anche in questo caso mutuando dinamiche tipiche della rete come le “petizioni online” e la loro forma deteriore, lo shitstorm) si è dunque formato un “tribunale pubblico permanente”. La sua funzione è vellicare a comando l’ombelico della “gente” desiderosa di essere riconosciuta come esistente in vita tramite la (illusoria) possibilità di esercitare un ingerenza diretta in fatti pubblici e privati in nome di una presunta superiore “eticità” ma che, individualmente, potrebbe avere qualche difficoltà a superare la prova evangelica del “chi è senza peccato”.

Questo fenomeno incide significativamente sulla dialettica del potere, evidenziando un cambiamento di ruolo dell’informazione professionale. In uno scenario multipolare essa (cerca di) diventa(re) catalizzatore diretto di reazioni sociali basate sull’isolamento e sul capitalismo della solitudine, più preoccupata della propria autopreservazione che del ruolo di mediatrice fra realtà e lettura dei fatti che la compongono.

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