Ambiguità semantiche, finalità dei trattamenti e limiti operativi della digital evidence

La previsione normativa che limita all’identificazione dei potenziali autori di delitti la finalità dell’uso della Banca dati nazionale del DNA stabilisce, nella sua laconicità, un limite estremamente chiaro che impedisce, in assenza di uno specifico atto normativo, di estendere le analisi che si possono compiere sui reperti/campioni biologici e l’utilizzo dei profili estratti anche ad ambiti ulteriori come la ricerca scientifica o le analisi familiari. Nello stesso tempo, tuttavia, la scelta politica di conservare i campioni/reperti insieme ai profili genetici (invece di limitare al conservazione ai soli secondi) apre scenari preoccupanti in rapporto al bilanciamento fra l’interesse pubblico all’individuazione dei colpevoli e la tutela dei diritti costituzionalmente garantiti alla persona di Andrea Monti – in in Banca dati del DNA e accertamento penale (a cura di L. Luparia – L. Marafioti), 2010 Giuffre?

Art. 5. (Istituzione della banca dati nazionale del DNA e del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA)

1. Al fine di facilitare l’identificazione degli autori dei delitti, presso il Ministero dell’interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, è istituita la banca dati nazionale del DNA.

2. Presso il Ministero della giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è istituito il laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA.

COMMENTO

Holy Roman Empire neither is Roman, nor is an Empire but, above all, it is not Holy”. The National DNA Database neither is national, nor contains DNA and, maybe, nor is one database.[1] Con la sintesi tipica della lingua inglese, questa citazione definisce in modo preciso i temi da trattare quando ci si occupa della banca dati nazionale del DNA (che pure nella sua versione italiana chiameremo, per convenzione, NDNAD): l’articolazione territoriale dell’infrastruttura, la distinzione fra database dei profili genetici e biobanca propriamente detta, la progettazione del sistema informativo per la gestione e la fruizione dell’enorme coacervo di dati contenuti nel NDNAD.

Di questi tre temi, il più rilevante per gli scopi di questo commento è sicuramente quello della definizione di “banca dati nazionale del DNA” così come formulata dal legislatore. La novella, infatti, pur adottando una definizione non rigorosa ha poi – correttamente – differenziato nell’articolato normativo due “oggetti” ontologicamente diversi e separati: il database dei profili genetici e la banca dei campioni biologici. Il primo, infatti, è un database informatico “puro”, nel senso che contiene soltanto informazioni digitalizzate (ed è la “banca dati del DNA” – rectius dei profili del DNA, propriamente detta). Mentre la seconda è una vera e propria banca di materiale biologico, o “biobanca”, che contiene i campioni fisiologici (saliva, sangue, tessuti, fluidi biologici) dai quali vengono estratti i profili che finiscono, poi, nel NDNAD. [2]

Dunque, e da qui la citazione che apre questo capitolo, a stretto rigore non esiste una “banca del DNA” in quanto tale, ma un insieme di fonti informative che concorrono a realizzare una meta-base di dati di livello superiore.

Questa meta-banca dati, dunque, contiene costitutivamente tutti i dati e le informazioni relative a un soggetto che la tecnologia consentirebbe di estrarre, con l’unico limite del precetto normativo che (art. 5 c. I) individua nella finalità di “facilitare l’identificazione degli autori dei delitti”. [3]Ne consegue che, a differenza di quanto accade nel Regno Unito e negli Stati Uniti, [4] la finalità espressa del trattamento dei dati genetici dichiarata dalla legge italiana preclude qualsiasi utilizzo diverso dei dati e delle informazioni contenute nel NDNAD,[5] come ad esempio quelli finalizzati ad attività di ricerca scientifica (alcune delle quali al limite della costituzionalità),[6] o sulle relazioni familiari[7] nonché il collegamento ad altre biobanche pubbliche o private costituite, ad esempio, in ambito di ricerca medica.

Il problema dell’identificazione

Ma cosa significa “facilitare l’identificazione degli autori dei delitti?”

La risposta a questa domanda passa necessariamente per un rapido excursus sull’evoluzione del rapporto fra scienza e indagini giudiziarie, che si è compiuto in meno di un secolo, subendo una brusca accelerazione negli ultimi 80 anni del XX secolo.

Come è noto, il problema di stabilire i criteri per l’attribuzione di un fatto a un soggetto o identificare in modo univoco il possibile autore di un reato si è posto nel momento in cui il diritto penale abbandonò il principio della faida in favore del modello di responsabilità penale personale. Il che ha implicato l’indispensabilità di ricorrere all’aiuto delle scienze naturali e della tecnologia per poter raggiungere il risultato atteso.

Il primo tentativo di creare un metodo scientifico sistematico per l’identificazione dei criminali risale al 1882 quando il francese Alphonse Bertillon [8] creò l’antropometria o (come pure fu chiamata) Bertillonage. Vale a dire la definizione di una serie di parametri fisici (ritenuti) oggettivi [9] la cui catalogazione avrebbe consentito una identificazione anche a posteriori di eventuali arrestati che rifiutassero di fornire le loro generalità. L’antropometria ebbe tanta notorietà e diffusione, quanto breve fu la sua esistenza. Con l’aumentare del numero dei soggetti da schedare e l’estrema imprecisione di metodi e strumenti di misura che diedero origine a un elevato numero di falsi positivi[10] fu presto evidente che il Bertillonage non poteva funzionare.[11]

Il fallimento dell’antropometria di Bertillon è un caso veramente paradigmatico di come una “scienza” i cui principi non sono tecnicamente fondati, condivisi dalla comunità scientifica (e soprattutto verificati in modo indipendente) produca poi degli effetti giudiziari che vanno a incidere in modo imprevedibile sulla libertà personale di un soggetto. Ed è anche il miglior monito per chi si “infatua” dell’ennesimo ritrovato tecnologico che prometterebbe di risolvere i problemi del processo.

Sorte diversa ebbero le ricerche dell’inglese Sir Francis Galton che nel 1892[12] costruisce le basi scientifiche per l’impiego delle impronte digitali come strumento di identificazione personale.[13]

Il grande salto concettuale e tecnologico si ha nel 1903 quando Karl Landsteiner comincia a porsi il problema della funzionalità dei gruppi sanguigni come strumento di identificazione personale, vincendo poi nel 1930, con queste ricerche, il Premio Nobel per la fisiologia. [14]

La nascita della DNA Forensic

Ma la tappa fondamentale nel viaggio all’interno del corpo umano alla ricerca di prove da usare in giudizio risale al 10 settembre 1984 quando Sir Alec Jeffreys, nel suo laboratorio di genetica alla Leicester University, notò nell’ambito delle sue ricerche che delle variabilità legate ad alcuni marker genetici potevano avere un’attitudine identificativa del soggetto cui si riferiscono. La DNA forensic era nata.

Poco più di dieci anni dopo, nel 1995 è sempre l’Inghilterra a guidare la rivoluzione della criminalistica genetica,[15] istituendo il primo National DNA Database al mondo,[16] seguito qualche anno dopo dall’istituzione del Combined DNA Index System (CODIS) del Federal Bureau of Investigation statunitense. [17]

Ruolo e funzione della prova genetica

Come dimostra l’analisi dei leading case inglesi[18] e statunitensi,[19] il DNA fingerprinting è uno strumento investigativo di inaudita potenza mediatica che all’inizio – metà anni ’80 – venne acriticamente recepito da molti scienziati e magistrati come “prova definitiva”, per poi subire un declino di popolarità fino al 1990 e infine riprendere una posizione centrale, ma su basi differenti. Il (quasi) miracolismo dei primi anni cede infatti il passo a un atteggiamento più critico, che riconosce la validità del DNA fingerprinting sulla base di attente verifiche scientifiche.[20] Il pericolo concreto di un ricorso fideistico alla prova genetica è quello di alterare irrimediabilmente il complesso equilibrio su cui è basata la rule of evidence dell’identificazione nel processo penale, specie se utilizzata insieme al database dei profili. L’Italia – complici i mezzi di informazione[21] – sta ripercorrendo esattamente la stessa strada, manifestando un atteggiamento ciecamente irrazionale nei risultati forniti dalle analisi genetiche, tale da mettere in secondo piano le altre prove emergenti dal processo. Si è infatti diffusa la tendenza a considerare la presenza di campioni biologici sulla scena del crimine con una dichiarazione di colpevolezza. Ma questo – e lo insegna l’esperienza internazionale – non è un approccio corretto. [22]

In altri termini, nel processo, l’obiettivo fondamentale della DNA forensic non può che essere quello di stabilire l’appartenenza di un campione a una persona. E dunque, l’unica domanda alla quale un genetista potrebbe rispondere sarebbe: premesso che l’imputato è innocente, qual è la probabilità che il DNA trovato sulla scena del crimine corrisponda a quello dell’imputato? Questa è una risposta che il genetista può dare, seppur in termini probabilistici. Quello che il genetista non può dire è se, data la corrispondenza dei profili appartenente all’imputato e trovati sulla scena del crimine, sussista una qualche probabilità che l’imputato sia innocente ovvero sia colpevole. [23]

Dunque, il termine “identificazione” utilizzato dall’art. 5 della novella è realmente di fondamentale importanza perchè oltre a delimitare il perimetro dei trattamenti che è possibile eseguire sulle informazioni contenute nel NDNAD, fornisce anche un criterio teleologico per la valutazione della genetic evidence. Il cui obiettivo non è individuare l’identità, il “se'” (vale a dire quello che ci rende unici e “univoci”) [24] ma fornire alla valutazione del giudice informazioni che potremmo chiamare “circostanziali” e che convincono probabilisticamente il decisore che l’eidolon evocato dal NDNAD corrisponde alla persona tratta a giudizio. [25] E a proposito di giudizio, in chiusura vale la pena di accennare – anche se solo in termini di semplice spunto di riflessione – al problema del “postconviction testing”, cioè alla possibilità di riaprire un giudizio oramai concluso per rileggere la vicenda processuale alla luce dei risultati che potrebbero giungere dall’esecuzione del test del DNA. Benché negli Stati Uniti siano ben formalizzate le procedure per chiedere una nuova celebrazione del giudizio, è dubbio che la finalità indicata dalla L.85/09 possa essere estesa fino al punto di supportare una richiesta di revisione. Il test del DNA, infatti, non sarebbe il presupposto della riapertura del processo ma la conseguenza (e, per di più dall’esito incerto).?

La criticità degli interessi in gioco induce a concludere che la finalità della Banca dati nazionale del DNA sia solo ed esclusivamente quella espressamente prevista dall’art. 5 della L.85/09. In quest’ottica, dunque, qualsiasi impiego processuale diverso da quello stabilito per legge sarebbe irrimediabilmente viziato, con conseguente inutilizzabilità nel dibattimento.

Conservazione dei campioni biologici, sicurezza e tutela dei diritti fondamentali della persona

La scelta del legislatore di conservare contemporaneamente i campioni/reperti biologici e i relativi profili è difficilmente comprensibile alla luce dello stato dell’arte in materia di DNA fingerprinting (che consente di realizzare profili genetici di attendibilità non significativamente contestabile) e dei pericoli per i diritti individuali derivanti dalla possibilità di eseguire analisi ulteriori sui reperti/campioni depositati nella Banca dati nazionale del DNA.

Art. 7. (Attività della banca dati nazionale del DNA)

1. La banca dati nazionale del DNA provvede alle seguenti attività:

a) raccolta del profilo del DNA dei soggetti di cui all’articolo 9, commi 1 e 2;

b) raccolta dei profili del DNA relativi a reperti biologici acquisiti nel corso di procedimenti penali;

c) raccolta dei profili del DNA di persone scomparse o loro consanguinei, di cadaveri e resti cadaverici non identificati;

d) raffronto dei profili del DNA a fini di identificazione.

Art. 8. (Attività del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA)

1. Il laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA provvede alle seguenti attività:

a) tipizzazione del profilo del DNA dei soggetti di cui all’articolo 9, commi 1 e 2;

b) conservazione dei campioni biologici dai quali sono tipizzati i profili del DNA.

COMMENTO

Gli articoli 7 e 8 stabiliscono il riparto di competenza fra la Banca dati nazionale e il Laboratorio centrale, caratterizzando la prima come unico ed esclusivo punto di accumulazione dei profili estratti dai reperti/campioni biologici e lasciando il secondo in una posizione ancillare – o comunque secondaria – rispetto ai “laboratori di alta specializzazione” e a quelli delle forze di polizia cui fa riferimento l’art. 10 della legge. A questi ultimi, infatti, viene seppur indirettamente conferita la legittimazione esclusiva ad eseguire le attività di tipizzazione dei reperti biologici, seppur nella forma dell’accertamento tecnico, della perizia o della consulenza tecnica. Ma nello stesso tempo, gli stessi soggetti operano come semplici collettori di campioni quando si tratta di prelievo (anche coatto) previsto ai sensi del successivo art. 9.

Il combinato disposto degli articoli 8 e 10 introduce poi una singolare disparità di trattamento fra i campioni biologici e i reperti. I primi, infatti, confluiscono nella biobanca gestita dal Laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA mentre i secondi rimangono nel fascicolo del dibattimento e solo i profili estratti da operatori diversi dal Laboratorio centrale vengono inviati alla Banca dati nazionale.

Dal farraginoso scenario disegnato dalle norme emerge abbastanza chiaramente, tuttavia, che la conservazione del campione biologico unitamente al relativo profilo non è un dogma. Nel NDNAD coesisteranno infatti campioni associati a profili (quelli gestiti direttamente dal Laboratorio centrale), e profili non associati a campioni, rectius, reperti (quelli provenienti dalle indagini di polizia giudiziaria).

Ci si chiede, allora, quale sia la ratio di una scelta legislativa del genere. Se le forze di polizia sono in grado di raccogliere oltre ai reperti anche i campioni (ed è così perchè lo dice la legge) per quale ragione possono profilare i primi e non i secondi?

Il problema della conservazione dei campioni

La scelta di fondo operata dal legislatore è stata dunque, seppur con le complicazioni appena evidenziate, quella di conservare sia il campione/reperto, sia il profilo. Questo, nonostante ci sia un diffuso consenso fra gli scienziati sul fatto che la conservazione dei campioni biologici sia inutile ai fini dell’identificazione e comporti un rischio di violazione dei diritti individuali troppo elevato e non giustificato. Come spiega bene Andrea Cocito nel capitolo dedicato alle definizioni introdotto dalla legge, l’attuale tecnologia basata sulla tipizzazione dei Single Nucleotide Polymorphism (SNIP) consente infatti di estrarre un profilo più che adeguatamente robusto per ridurre la probabilità di falsi positivi ad un numero spaventosamente prossimo allo zero senza quindi essere costretti a conservare informazioni di carattere sanitario ed etnico. [26] Viceversa, estendere l’obbligo di conservazione anche al tessuto/fluido biologico implica di per sé e oggettivamente la possibilità che questi campioni possano essere sottoposti a screening diversi da quelli originariamente previsti per legge. [27]

D’altra parte, per convincersi dell’inutilità di conservare i campioni/reperti biologici basta considerare che il processo di identificazione basato sul NDNAD prevede l’intervento di tre elementi: il reperto, il campione e l’indagato. Se la tipizzazione del profilo eseguita su un reperto produce una corrispondenza nel profilo tipizzato da un campione e inserito nel NDNAD, è sempre possibile, per l’indagato, chiedere una nuova tipizzazione che metta a confronto il profilo estratto dal reperto con quello generato direttamente da un campione proveniente dall’indagato. In questo modo è possibile, con tutte le garanzie difensive, accertarsi dell’effettività dell’identificazione.

Ma non sono solo queste le preoccupazioni che avrebbero suggerito l’adozione di scelte differenti. Come già accennato in precedenza, sono troppo elevati i rischi di impieghi ulteriori del materiale genetico e delle informazioni custodite nella Banca dati nazionale e la possibilità concreta di abusi e manipolazioni, non certo scongiurata dalle tenui sanzioni previste dalla norma e dall’assenza di obblighi sostanziali di adozione di specifiche misure di sicurezza. [28]

In proposito, la legge è particolarmente carente, specie in considerazione del fatto che una parte consistente della tipizzazione si svolgerà, con buona probabilità, nei “laboratori di alta specializzazione” e in quelli delle forze di polizia il che non è necessariamente sinonimo di attenzione alla sicurezza.

Lo dimostra il provvedimento annunciato – ma stranamente non pubblicato – dal Garante per i dati personali il 25 maggio 2009 adottato in relazione alla biobanca creata e gestita dal Raggruppamento Investigativo Speciale (RIS) dell’Arma dei Carabinieri. L’Autorità pur facendosi velo con la cripticità del testo, non riesce a celare una situazione a dir poco problematica nella gestione della biobanca del RIS, che non garantiva adeguati livelli di protezione dei profili e dei campioni, tanto da dover prescrivere l’adozione di misure di sicurezza così basilari (come il controllo degli accessi logici ai profili e fisici ai campioni) da essere obbligatorie persino per un piccolo fornitore di servizi internet. [29]

In termini più generali, è opinione accreditata che la sicurezza delle strutture che ospitano biobanche e database di profili deva innanzi tutto essere orientata alla protezione della privacy da minacce derivanti da accessi non autorizzati e dalle conseguenze della distruzione (anche) accidentale di dati, informazioni e campioni. [30]

Da ultimo, in rapporto ai problemi derivanti dalla raccolta di campioni di persone scomparse – art. 7 c.I lett.c) – è appena il caso di accennare a un tema che verrà svolto più ampiamente nel commento all’art. 12, vale a dire quello della necessità di procedure che garantiscano adeguata certezza sulla corrispondenza fra il campione biologico destinato all’inserimento nella biobanca e nel database dei profili e l’identità del soggetto cui, apparentemente, dovrebbe riferirsi. Tema complesso, ma non estraneo all’esperienza giuridica contemporanea che già ha dovuto cimentarsi con il tema della chain of custody (o “catena del freddo”) occupandosi delle questioni processuali che si ponevano a proposito di un altro tipo di prova, quella informatica.

Una delle ragioni – peraltro deboli, come detto – che sorreggerebbero la necessità di preservare nella banca dati i campioni biologici oltre che i “semplici” profili, risiederebbe nella possibilità di ripetere ove necessario le analisi scientifiche. In realtà il problema della conservazione riguarda i soli reperti, perchè dei campioni oggetto di prelievo (coatto) è sempre possibile ottenere un nuovo esemplare.

Doppio binario per i campioni e i reperti. La catena di custodia è il problema

L’art. 12 affronta un tema estremamente delicato: la definizione dei criteri per la gestione della sicurezza della Banca dati del DNA e del Laboratorio centrale. La portata della norma, tuttavia, è estremamente limitata sia dal punto di vista dell’ambito di applicazione (nulla dice a proposito dei reperti e delle attività dei laboratori di alta specializzazione e di quelli delle forze di polizia), sia da quello dell’effettività delle misure indicate. Queste ultime, infatti, sono definite in modo estremamente generico e incompleto – specie se comparate a quelle previste per la conservazione dei dati di traffico telematico trattati a fini di giustizia – e non danno una reale garanzia per l’integrità di profili e campioni.

Nemmeno ci sono indicazioni sull’obbligo di garantire la continuity of evidence e sulle implicazioni processuali in termini di ammissibilità della prova mal- trattata. Il che apre la strada al sicuro radicarsi di un orientamento interpretativo che – come già accaduto per la prova informatica – porrà a carico della difesa la probatio diabolica di dimostrare che errori o manipolazioni dolose hanno inficiato il valore della prova genetica.

Infine, la previsione del dovere di serbare il segreto d’ufficio in capo al personale autorizzato ad accedere ai dati del NDNAD sembra veramente un arma spuntata, rispetto ai potenziali interessi criminali di chi potrebbe voler alterare o distruggere i campioni o i profili.

Art. 12. (Trattamento e accesso ai dati; tracciabilità dei campioni)

1. I profili del DNA e i relativi campioni non contengono le informazioni che consentono l’identificazione diretta del soggetto cui sono riferiti.

2. L’accesso ai dati contenuti nella banca dati nazionale del DNA è consentito alla polizia giudiziaria e all’autorità giudiziaria esclusivamente per fini di identificazione personale, nonché per le finalità di collaborazione internazionale di polizia. L’accesso ai dati contenuti nel laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA e` consentito ai medesimi soggetti e per le medesime finalità , previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria.

3. Il trattamento e l’accesso ai dati contenuti nella banca dati nazionale del DNA e nel laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA sono effettuati con modalità tali da assicurare l’identificazione dell’operatore e la registrazione di ogni attività. E` altresì assicurata la registrazione di ogni attività concernente i campioni.

4. Il trattamento e l’accesso ai dati contenuti nella banca dati nazionale del DNA e nel laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA sono riservati al personale espressamente autorizzato.

5. Il personale addetto alla banca dati nazionale del DNA e al laboratorio centrale per la banca dati nazionale del DNA è tenuto al segreto per gli atti, i dati e le informazioni di cui sia venuto a conoscenza a causa o nell’esercizio delle proprie funzioni.

COMMENTO

Correttamente il comma I della norma in commento stabilisce che i profili genetici e i campioni (cioè, ai sensi dell’art. 6 c. I lett. c) il materiale biologico prelevato sulla persona il cui DNA deve essere tipizzato) devono essere trattati secondo il principio di separazione già stabilito dall’art. 3 del d.lgs. 196/03, secondo il quale “sistemi informativi e i programmi informatici sono configurati riducendo al minimo l’utilizzazione di dati personali e di dati identificativi, in modo da escluderne il trattamento quando le finalità perseguite nei singoli casi possono essere realizzate mediante, rispettivamente, dati anonimi od opportune modalità che permettano di identificare l’interessato solo in caso di necessità.”.

Curiosamente, però, lo stesso principio sembra non valere per i reperti (definiti dall’art. 6 c. I lett. d) della novella) che, dunque, potrebbero essere trattati dai laboratori di alta specializzazione e da quelli delle forze di polizia senza l’osservanza di un principio fondamentale per limitare l’abusiva acquisizione, comunicazione o diffusione di informazioni.[31] La presenza di due definizioni precise (“campione” e “reperto”), induce a ritenere che la parola “campioni” utilizzata dal comma I dell’art. 12 non possa essere interpretata in senso più ampio, pena la violazione dei criteri stabiliti dall’art. 12 delle preleggi.

Peraltro, anche il secondo comma dell’articolo in commento rinforza la convinzione che il trattamento dei reperti sia escluso dalla copertura della norma. Essa regola, infatti, l’accesso ai dati contenuti nella banca dati nazionale del DNA, ai campioni custoditi nel laboratorio centrale ma nulla dice sui reperti.

In realtà, almeno per quanto riguarda questi ultimi, l’esclusione si spiegherebbe con la scelta di consentire alla sola autorità giudiziaria e alla polizia giudiziaria il potere di accedere direttamente alla Banca dati nazionale (con qualche perplessità per quanto riguarda il diritto di difesa, che in questo scenario può essere esercitato soltanto in via indiretta, sollecitando il pubblico ministero). E’ evidente, infatti, che essendo i reperti già nella disponibilità della magistratura inquirente – o giudicante – il problema sarebbe risolto in radice (ancora, però, con forti perplessità sulla tenuta complessiva del sistema di sicurezza dell’infrastruttura, come si dirà meglio infra).

Il comma II dell’art. 12, nello stabilire le finalità dell’accesso ai contenuti della Banca dati nazionale e del Laboratorio centrale, sembra ribadire il principio enunciato dall’art. 5 (identificazione personale) ma “coglie l’occasione” per aggiungere qualcosa in più, introducendo anche le finalità di collaborazione internazionale. Si tratta, con tutta evidenza, di una locuzione estremamente vaga che, in quanto tale, potrebbe consentire un sostanziale scavalcamento del perimetro operativo rigidamente stabilito con l’art. 5 della novella. Dunque, per salvare la coerenza del sistema, il riferimento alla cooperazione internazionale deve necessariamente essere letto come limitato alle sole necessità di identificazione.

Mentre l’accesso alla Banca dati nazionale è consentito indifferentemente all’autorità giudiziaria e alla polizia giudiziaria, alquanto bizzarra è la procedura stabilita dalla norma per l’accesso ai dati relativi ai campioni custoditi nel Laboratorio centrale. Essi possono essere acceduti “dai medesimi soggetti e per le medesime finalità” – recita la norma – “previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria”. Cioè la polizia giudiziaria è autorizzata dall’autorità giudiziaria, mentre l’autorità giudiziaria autorizza se stessa.

I commi III, IV e V dell’art. 12 sono dedicati alle misure di sicurezza della biobanca e del database dei profili e sono quelli che destano le maggiori preoccupazioni. Si pone, in primo luogo, un problema di armonizzazione di questa norma con il Codice dei dati personali e in particolare con la regolamentazione delle misure di sicurezza. Il Codice, pur con le note farraginosità testuali e applicative, definisce un articolato sistema che comprende misure di sicurezza fisiche, logiche e organizzative ad applicazione generalizzata. Ora, il fatto che l’articolo in commento definisce in modo chiaro quali siano i (deficitari) criteri di sicurezza da applicare nella gestione del NDNAD pone il problema di capire se siamo in presenza di una deroga alle misure più rigide previste dal Codice dei dati personali. Il buon senso, ancora prima che le complessità dell’ermeneutica, suggerisce che questo non sia possibile; fatto sta che il problema di coordinamento fra i due provvedimenti legislativi aventi pari rango – questo è il punto -si pone ugualmente. Le regole dettate dall’art. 12 sono frutto di un approccio eufemisticamente definibile “minimalista”, palesemente insufficiente di fronte all’amplificazione della complessità derivante dalla fattorizzazione dei problemi specifici delle raccolte di tessuti [32] e di quelli che affliggono le tecnologie dell’informazione, [33] tale da far rimpiangere l’allegato B al d.lgs. 196/03. [34]

Brilla per la sua assenza, nel comma III, il concetto di identificazione sicura o, volendo ricorrere a una nozione già positivizzata dalla disciplina delle firme elettroniche, quella di “identificazione certa”. Dunque, l’unico obbligo per i responsabili della Banca dati e del Laboratorio centrale sarebbe quello di attivare una qualche forma non particolarmente robusta di gestione e registrazione di accessi fisici e logici. Certo, anche il NDNAD dovrebbe applicare le misure di sicurezza previste per il trattamento dei dati personali. Ma ci si sarebbe aspettato che il legislatore prescrivesse specifiche norme di indirizzo, invece di affidarsi all’interpretazione, in modo particolare per quanto riguarda la gestione dei reperti e delle relative attività di tipizzazione. Ciò vale in modo particolare per l’auspicabile – ma disattesa – imposizione di una durata stabilita per la conservazione dei dati di accesso ai sistemi e alle infrastrutture della Banca dati nazionale e del Laboratorio centrale, sulla scorta di quanto previsto in materia di conservazione dei dati di traffico telematico per fini di giustizia.

Il tema è particolarmente rilevante perché se da un lato il problema della validità scientifica della teoria che sostiene il valore probatorio del DNA fingerprinting è ampiamente superato, rimangono sul tappeto le questioni, sicuramente più “scivolose” legate alla concreta esecuzione delle analisi di laboratorio e, prima ancora, della corretta acquisizione e trattamento del reperto. Dunque, la questione dell’ammissibilità della prova genetica potrà essere oggetto di questioni tecniche più che scientifiche. Oltre ai due argomenti classici utilizzati per contestare l’ammissibilità o l’attendibilità della prova genetica in giudizio (l’errore di laboratorio e la (in)affidabilità delle analisi statistiche per la determinazione della probabilità della corrispondenza fra il profilo proveniente dal reperto e quello proveniente dall’indagato), ce n’è un terzo che assume un ruolo controverso e rilevante: la possibilità non quantificabile che un errore pratico (o un atto doloso) nella raccolta, manipolazione, e analisi dei campioni possa limitare il significato e il valore della stima della Random Match Probability (RMP) [35] e più in generale l’attendibilità stessa dell’analisi eseguita su campioni o reperti di provenienza incerta o giunti nel laboratorio (e poi nel database dei profili) senza una catena di custodia (cioè la tracciabilità del percorso del campione dalla scena del crimine al processo) adeguata e documentabile. [36] Una preoccupazione amplificata dalla pubblicazione dei risultati di una ricerca[37] israeliana che dimostra la possibilità concreta di falsificare campioni genetici, che possono essere riconosciuti come manipolati solo ed esclusivamente grazie a uno specifico esame. Senza voler disegnare scenari apocalittici, dunque, è evidente che la previsione di una rigida catena di custodia e – cosa che manca nella legge – l’esplicita previsione dell’inutilizzabilità processuale di campioni e reperti acquisiti in modo difforme dalle indicazioni per la raccolta e il trattamento del materiale genetico, avrebbero ridotto enormemente il rischio di contestazione della prova genetica sotto il doppio profilo della sua ammissibilità e – in via gradata – dell’attendibilità.

Si ripropone dunque, anche a proposito della prova genetica, il dibattito ancora aperto a proposito della prova informatica e relativo, appunto, alla necessità o meno di osservare la continuity of evidence come requisito costitutivo del valore probatorio di quanto rivenuto durante le indagini. Il non condivisibile orientamento giurisprudenziale [38] che si sta formando sul punto – anche se in presenza di decisioni di segno parzialmente diverso[39] e diffusamente criticato in dottrina[40] – pone a carico della difesa la probatio diabolica di dimostrare che nella procedura di raccolta e analisi della prova informatica si siano verificati errori o manipolazioni che ne hanno inficiato la validità.

Nel caso della prova genetica, tuttavia, è evidente che l’orientamento garantista deve avere la prevalenza. Ben lungi dall’essere una “prova assoluta”, quella genetica ha bisogno infatti di essere accuratamente protetta sin dalla fase della raccolta dei reperti per evitare futuri problemi in dibattimento. Non si può tacere, tuttavia, che l’orientamento delle corti statunitensi e inglesi – che hanno scritto la storia giudiziaria della “Guerra del DNA” – è di segno restrittivo. “Benché il potenziale errore di laboratorio sia stato considerato … un elemento che incide sull’ammissibilità della prova, generalmente i tribunali considerano le eccezioni basate sull’errore come un problema di “peso” e non di ammissibilità.”[41]

Se le corti italiane vorranno conformarsi a questo indirizzo dovranno tuttavia confrontarsi con il fatto che, a differenza di quanto accaduto per la prova informatica, per quella genetica esiste (art. 11 della novella) una positivizzazione del riferimento a standard tecnici come elemento fondante la correttezza delle analisi. Ma se il rispetto di uno standard tecnico è condizione per eseguire le analisi, non c’è ragione perché un criterio analogo non deva essere applicato anche alle modalità di raccolta e gestione di reperti e campioni.

Dunque, almeno in Italia, l’esito del dibattito è lungi dall’essere già scritto.

L’art. 12, in combinato disposto con le definizioni dell’art. 6 esclude l’applicabilità delle – seppur labili – misure di sicurezza anche al trattamento dei reperti. Il che è effettivamente paradossale, se si pensa che proprio il momento dell’analisi del materiale biologico reperito sulla scena del crimine è uno di quelli che più frequentemente oggetto di esame critico in dibattimento.

  1. “Il Sacro Romano Impero non è romano, non è un impero, ma soprattutto non è sacro. Il Nationa DNA Database (NDNAD) non è nazionale, non contiene DNA, e forse non è solo un database”. Così FIRTH S., Il National DNA Database in Gran Bretagna in Atti della IV Italian Biotech Law Conference, Milano, 2008 – www.iblc.net – disponibili in formato podcast all’indirizzo http://phobos.apple.com/WebObjects/MZStore.woa/wa/viewPodcast?id=272647508 v. 15 settembre 2009. ?
  2. Il termine “biobanca” può assumere due accezioni. La prima, più ristretta, è quella di specimen collections originated from living organisms mentre la seconda, più ampia, fa riferimento alla specimen collection that contains genetic specimens and related database of genetic background and identity data in order to human genetic studies (vedi http://www.biobank.hu/en/biobank.php v. 15 settembre 2009). Viste le scelte normative in ambito definitorio appare dunque necessario utilizzare l’accezione ristretta del termine. ?
  3. E’ appena il caso di ricordare, pertanto, che per chiara voluntas legis i responsabili di contravvenzioni e violazioni amministrative sono esclusi dalla profilazione genetica. ?
  4. Vedi LAZER D., DNA and the Criminal Justice System: The Technology of Justice MIT Press 2004 ?
  5. Il problema dell’utilizzo “preterintenzionale” dei dati custoditi per finalità giudiziarie si è già posto in relazione alle informazioni sul traffico telematico la cui conservazione obbligatoria da parte degli operatori di accesso. Originariamente concepita per le sole finalità di supporto alle attività giudiziarie, è stata oggetto di tentativi lobbistici a livello comunitario per estendere l’utilizzabilità dei dati così raccolti anche per finalità diverse. Vedi, sul punto, Some amendments of the EP voted Telecom package still worrying in EDRI-gram. 6.20 del 22 ottobre 2008, reperibile su www.edri.org v. 15 settembre 2009. ?
  6. The data stored in the NDNAD in combination with access to the stored samples could offer a wealth of information for researchers interested in studying criminal behaviour. There have already been studies that have tried to find genes linked to violent or sexual crimes or to find ways to use genetic tests to predict which people are more likely to re-offend. Così STALEY, K. The Police National DNA Database: Balancing Crime Detection, Human Rights and Privacy p. 36 in www.genewatch.org v. 15 settembre 2009 ?
  7. L’art. 7 c. I lett. c) limita la raccolta dei profili di consanguinei al solo caso di necessità di individuazione di persone scomparse, mentre – ad esempio – la normativa inglese consente di eseguire ricerche sui parenti di un sospettato. Familial searches allow the police to identify a suspect even if their profile is not on the NDNAD by looking for partial matches between SOC profiles and the profiles of people who might be closely related. STALEY, K. op. cit. p. 18 ?
  8. Vedi sul punto BERTILLON A., Alphonse Bertillon’s Instructions for Taking Descriptions for the Identification of Criminals and Others, by Means of Anthropometric Indications Kessinger Publishing 2009, e BERTILLON S., Vie d’Alphonse Bertillon, inventeur de l’anthropométrie, Gallimard 1941. ?
  9. Fra i quali, ad esempio: altezza del soggetto in piedi, altezza del soggetto piegato, lunghezza del braccio, dimensioni delle orecchie ecc. ?
  10. Vedi sul punto WALL W., Genetics and DNA Technology: Legal Aspects II ed. Routledge Cavendish 2004. ?
  11. La fallibilità dell’antropometria divenne addirittura un espediente letterario. Diede l’opportunità ad Arséne Lupin di essere addirittura rimesso in libertà nientemeno che dal tribunale di Parigi. Arrestato,il ladro gentiluomo rimase mesi e mesi recluso in attesa di giudizio, ma il giorno del processo di fronte alla Corte si presentò non già il famoso delinquente, ma un tal Didier Baudru i cui dati antropometrici non corrispondevano a quelli del soggetto che era stato tratto in arresto dalla polizia. Spiegherà in seguito Lupin a un attonito commissario Ganimard di essere riuscito a ingannare polizia e giudici grazie all’uso di sostanze chimiche per alterare il colore della pelle, farmaci per dilatare le pupille e a un’attento cambio di postura che aveva alterato tutte le misurazioni originariamente eseguite all’atto dell’arresto. Vedi LEBLANC M., L’arrestation d’Arsène Lupin Livre de Poche – Hachette Paris, 1995. ?
  12. GALTON F., The patterns in thumb and finger marks Kegan Paul, Trench, Trübner & Co., London 1891, GALTON F., Finger Prints Macmillan, London 1892. ?
  13. L’idea, in se stessa, non era nuova. Già nella Cina del 1300 i mercanti usavano raccogliere le impronte delle piante dei piedi e dei palmi delle mani su della carta inchiostrata per distinguere singoli individui. ?
  14. “One practical application of the group characteristics which immediately suggested itself was the distinguishing between human blood stains for forensic purposes. By means of the praecipitin reactions (Kraus; Bordet; Uhlenhuth) it is not difficult to determine whether a blood stain is of human or animal origin, but forensic medicine knew no way of distinguishing between blood stains from different persons. Since the iso-agglutinins and the corresponding agglutinogens will also keep for a considerable time in a dried condition, the problem can in certain cases be solved, in particular when the bloods in question, e.g. that of the accused and that of the victim, belong to different groups”. Così LANDSTEINER K., On Individual Differences in Human Blood in Nobel Lectures, Physiology or Medicine 1922-1941 Elsevier. Disponibile su http://nobelprize.org/nobel_prizes/medicine/laureates/1930/landsteiner-lecture.pdf visitato il 15 settembre 2009. ?
  15. In termini strettamente epistemologici, l’avvento della prova genetica è tutt’altro che “rivoluzionario” dal momento che, come si è detto, si inserisce in un percorso evolutivo tracciato dai metodi che la hanno preceduta. Così LYNCH M, COLE S., McNALLY R., JORDAN K., Truth Machine 2008 The University of Chicago Press. Sul concetto di rivoluzione scientifica vedi KUHN T., The Structure of Scientific Revolutions Chicago University Press 1962, ed. it La struttura delle rivoluzioni scientifiche Torino 1969. ?
  16. Basato su tecnologia Oracle, il NDNAD inglese è collegato al Police National Computer ed è sotto il controllo di un custode nominato dal Governo. Il Criminal Justice Police Act (CJPA) del 2001 permette la conservazione di tutti i profili ottenuti legalmente, compresi quelli provenienti dai campioni forniti dai volontari. Mentre il CJPA del 2003 ha esteso l’autorità delle forze di polizia, fino a consentire al conservazione dei profili anche a seguito dell’assoluzione dell’imputato. Dall’aprile del 2004 un ulteriore intervento normativo ha consentito alla polizia di prelevare senza il consenso dell’interessato, campioni biologici di chiunque sia arrestato sulla base del mero sospetto di avere commesso un illecito. La sentenza Marper (European Court of Human Rights Judg. Dec.14 2008 – Case 30562/04 30566/04) ha significativamente – ma senza effetto concreto – ridimensionato l’estensione dei poteri di profilazione, affermando che “the capacity of DNA profiles to provide a means of identifying genetic relationships between individuals was in itself sufficient to conclude that their retention interfered with the right to the private life of those individuals. The possibility created by DNA profiles for drawing inferences about ethnic origin made their retention all the more sensitive and susceptible of affecting the right to private life. The Court concluded that the retention of both cellular samples and DNA profiles amounted to an interference with the applicants’ right to respect for their private lives, within the meaning of Article 8 § 1 of the Convention”. Il testo integrale della sentenza è disponibile all’indirizzo http://www.ictlex.net/wp-content/marper-v-uk.pdf Visitato il 15 settembre 2009. ?
  17. Vedi, seppur sommariamente, CLARKE G., Justice and Science. Trials and Triumph of DNA evidence Rutgers University Press 2007 pagg. 122-123. ?
  18. Per i quali si rinvia a LYNCH M., COLE S., McNALLY R., JORDAN K., op. cit. ?
  19. Per cui si rinvia a ARONSON J., Genetic Witness: Science, Law, and Controversy in the Making of DNA Profiling Rutgers University Press, 2007. ?
  20. E’ interessante notare come, addirittura, la serie di test che ha portato alla definitiva accettazione nel processo della prova genetica abbia stabilito il livello di rigore da utilizzare anche per sistemi di identificazione preesistenti. ?
  21. Vedi SEMIGLIA M., Il DNA forense nei mass media dall’analisi di due importanti quotidiani Scuola Internazionale di Studi Avanzati – SISSA Trieste 2009. ?
  22. Indicativo, in tal senso, il caso noto alle cronache come “stupro della caffarella” risalente al 14 febbraio 2009 in cui i primi sospettati, pur scagionati dal test del DNA, continuavano a essere ritenuti colpevoli dagli inquirenti. ”Ma non si capisce per quale ragione la confessione che prima era considerata vera, oggi non lo è più – fanno presente in procura”, una frase che rivela tutto lo sbandamento intellettuale di chi, contro l’evidenza scientifica, si “aggrappa” a certezze concrete – o presunte tali. Vedi la cronaca di BISSO M., Caffarella, annullato l’arresto. Non sono loro gli stupratori in La Repubblica del 11 marzo 2009 pag. 2 sezione cronaca. ?
  23. Così WALL W., op. cit. ?
  24. Vedi ampiamente, sul punto, BONIOLO G., DEANNA G., VINCENZI U. Individuo e persona. Tre saggi su chi siamo Milano, 2007 e, in un’ottica parzialmente diversa FLORIDI L. Infosfera Torino, 2009 pag. 152. ?
  25. Sul concetto di privacy informazionale e di definizione dell’identità tramite l’informazione vedi FLORIDI L., The Ontological Interpretation of Informational Privacy in Ethics and Information Technology. 2005, 7.4, 185 – 200, disponibile all’indirizzo http://www.philosophyofinformation.net/publications/pdf/toioip.pdf e, dello stesso autore, Four Challenges for a Theory of Informational Privacy in Ethics and Information Technology, 2006, 8.3, 109-119 disponibile all’indirizzo http://www.philosophyofinformation.net/publications/pdf/fcfatoip.pdf entrambi visitati il 15 settembre 2009. ?
  26. “C’è semplicemente una scelta da fare per capire quanta informazione vogliamo estrarre da ogni campione che vogliamo catalogare. Scelta che deve tener conto dei costi, dell’impatto sociale, dei pericoli o delle opportunità che vengono fuori dall’estrarre delle informazioni che possono avere una rilevanza clinica.

    È possibile comunque avere dei profili genetici che non contengano alcuna informazione sullo stato di salute: è sufficiente andare a prendere quelle variazioni del DNA che non sono significative dal punto di vista clinico. Questo è il punto più importante di tutti: i limiti tecnologici ci sono in questo momento, ma sono riferiti ai campioni casuali, quelli trovati nel posto a seguito di un crimine; non sono riferiti ai campioni presi da un individuo per costruire il database. Questo è importante perché lascia aperta la domanda del perché in molte nazioni vengano conservati anche i campioni biologici.

    Il campione biologico contiene tutta l’informazione: finché c’è una provetta in qualche laboratorio o deposito con una parte di mio materiale biologico, da quel campione è possibile fare una qualsiasi analisi, anche di tipo diagnostico. Ecco perché è necessario, prima di parlare di un progetto del database del DNA, capire quali sono le domande a cui questo database dovrà rispondere, quali sono le finalità che dichiariamo e cosa vogliamo farne, perché se la domanda è solo cercare qual è il soggetto che corrisponde a un campione, è una domanda molto diversa da quella di avere delle informazioni sullo stato di salute delle persone sottoposte a screening.” Così COCITO A., La sicurezza del DNABase in Atti della IV Italian Biotech Law Conference, Milano, 2008 – www.iblc.net – disponibili in formato podcast all’indirizzo http://phobos.apple.com/WebObjects/MZStore.woa/wa/viewPodcast?id=272647508 v. 15 settembre 2009. ?

  27. Magari in forza di quale provvedimento d’urgenza emanato sull’onda della pressione emotiva provocata da fatti di cronaca nera o in nome della “sicurezza nazionale”. ?
  28. Ulteriori preoccupazioni sono espresse da STALEY, K op. cit. secondo cui “DNA samples (except samples from the scene of a crime) should not be retained once an investigation is complete. Only DNA profiles and personal data need to be on the database to find a ‘match’ for a criminal investigation. Research uses of the database itself (profiles and personal data) should be restricted to producing ‘quality control’ statistics on the type of data that has been added and how the data is being used. This recommendation removes concerns that samples could be used for purposes other than identification, such as research into criminal behaviour, without the individual’s consent. … All the information that is needed is stored in the DNA profile held on a computer. Physical samples do not need to be retained to prevent errors because a fresh sample must be taken anyway before DNA evidence can be used in court. Although it can be argued that samples may need to be reanalysed if the technology is updated, in reality upgrading the DNA profiling system used on the database seems to be both costly and unnecessary.”. ?
  29. Banca dati dna: conclusi gli adempimenti per la messa in sicurezza dell’archivio dei Ris

    Si sono concluse positivamente le procedure tecniche e organizzative per la messa in sicurezza della banca dati del Ris di Parma. L’archivio raccoglie migliaia di profili genetici e campioni biologici acquisiti negli anni nel corso di indagini penali e conservati su disposizione della magistratura.

    Le misure, prescritte dal Garante privacy a partire dal 2007, sono volte a rafforzare il livello di protezione di dati personali particolarmente delicati come quelli genetici.

    Presso il Ris sono detenuti in un archivio informatico profili genetici (costituiti da sequenze alfanumeriche) estratti da reperti rinvenuti in luoghi dove risultavano commessi reati o appartenenti a persone identificate nel corso di indagini (persone sospettate, vittime di reato, operatori di polizia), ma anche campioni biologici, in forma di “estratti di Dna”, che residuano dalle analisi effettuate.

    Profili e campioni biologici, se non disposto diversamente dall’autorità giudiziaria, sono conservati a tempo indeterminato per eventuali, ulteriori esigenze investigative.

    Le misure prescritte dal Garante e adottate dal Ris per la messa in sicurezza dei dati sono particolarmente rigorose. Tra le principali figurano l’obbligo di conservare traccia di ogni accesso al database e delle operazioni effettuate dal personale autorizzato che ha accesso ai campioni; l’adozione di sistemi di autenticazione per il personale che accede al database nonché sistemi elettronici (almeno con riconoscimento biometrico) per controllare l’ingresso ai locali dove sono conservati i campioni biologici; l’individuazione preventiva del personale autorizzato alla loro consultazione; l’adozione di soluzioni tali da non rendere i campioni conservati direttamente riconducibili a persone identificate.

    Al Ris è stato infine prescritto che l’eventuale ulteriore uso dei profili e dei campioni biologici, compresa l’attività di comparazione tra i profili genetici, deve essere effettuato attenendosi alle disposizioni delle competenti autorità giudiziarie.

    Il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri ha comunicato, infine al Garante, che le stesse misure sono state applicate, oltre che al Reparto di Parma, anche agli altri Ris di Roma, Messina e Cagliari.

    Roma, 25 maggio 2009

    Disponibile all’indirizzo http://www.garanteprivacy.it/garante/doc.jsp?ID=1616807 v. 15 settembre 2009 ?

  30. Sul punto vedi più diffusamente il commento all’art. 12. ?
  31. Il caso del RIS di Parma, citato supra, è estremamente indicativo in proposito. ?
  32. “What are the security mechanisms for DNA banking? HUGO’s 1996 Statement on the Principled Conduct of Genetic Research recognized privacy and the need to protect against unauthorized access by putting in place mechanisms to ensure the confidentiality of genetic information. It advocated that information and samples be coded, that procedures be put in place to control access, and that policies be developed for the transfer and conservation of samples. The Council of Europe’s Recommendations on the Protection of Medical Data (1997) included new provisions applicable to the collection and automatic processing of medical data, including genetic data. Article 9.1 states that ‘appropriate technical and organizational measures shall be taken to protect personal data – processed in accordance with this recommendation – against accidental or illegal destruction, accidental loss, as well as against unauthorized access, alteration, communication or any other form of processing. Such measures shall ensure an appropriate level of security, taking account, on the one hand, of the technical state of the art and, on the other hand, of the sensitive nature of medical data and the evaluation of potential risks’. At the national level, most countries would subject genetic information to the security mechanisms in place for nominative and medical data generally (7,17; French Bioethics Law, 1994; 8; Swedish Act Concerning the Use of Gene Technology on Human Beings, 1991). Austria (1994), Estonia (2000) and Iceland (2000) have specifically adopted a law to ensure that appropriate measures are applied to the storage and use of genetic information.”. Così GODARD B., SCHMIDTKE J., CASSIMAN J., AYME S., Data storage and DNA banking for biomedical research: informed consent, confidentiality, quality issues, ownership, return of benefits. A professional perspective in European Journal of Human Genetics vol. 11 Issue s2, pag. s88-s122 ?
  33. Purtroppo, la gran parte delle aziende sembra aver adottato soprattutto uno dei comportamenti seguenti: o non ha fatto proprio nulla di particolare per adeguarsi alla situazione, non particolarmente critica; oppure ha reagito in modo tattico e spesso emotivo, magari sulla scia di uno dei tanti episodi eclatanti riportati dalla stampa o dalla televisione, dotandosi in tutta fretta di un’imponente schiera di tecnologie alla moda per proteggersi dal mondo esterno.

    Entrambi questi atteggiamenti sono errati, ma oltretutto nel secondo caso è elevatissima la probabilità di aver adottato misure inutili, ossia non efficaci e spesso neppure efficienti. In entrambi i casi l’azienda finisce per crogiolarsi in un senso di

    sicurezza (purtroppo falso) che la porta ad abbassare la guardia dormendo sonni tranquilli quando invece non dovrebbe.

    Due sono gli errori principali commessi dalle moderne aziende nell’affrontare i rischi della società dell’informazione: il primo – e più grave – è quello che dà il titolo a questo libro; il secondo è la troppa fiducia nella tecnologia. Entrambi sono, in

    ultima analisi, causati da una visione ultra-manichea della vita, la quale porta a pensare che il mondo si divida sempre e comunque in due (in questo caso: persone e tecnologie) e che tutto sia sempre e necessariamente buono o cattivo, senza

    mezze misure. Così GIUSTOZZI C. La sindrome di Fort Apache Pescara 2008 pag. 14-15 ?

  34. Vedi CAMMARATA M. (a cura di), La legge e la rete. Dieci anni (e più) di internet e diritto. Pescara 2008 e, dello stesso autore, Se capire le norme è più difficile che applicarle in Interlex del 25 marzo 2004, http://www.interlex.it/675/dpsrinvio.htm visitato il 15 settembre 2009. ?
  35. Cioè del dato statistico che indica la probabilità che dato un certo profilo genetico appartenente a una popolazione di individui, ne esista almeno un altro uguale. Vedi sul punto LYNCH M., COLE S., McNALLY R., JORDAN K., op. cit. pag. 113 e segg. ?
  36. “Quella della “prova genetica falsificata” è stata una delle strategie difensive che in USA, nel 1994, consentirono alla difesa di OJ Simpson di mettere in dubbio con successo la rilevanza della prova biologica (Simpson, infatti, non venne condannato per l’omicidio della sua ex moglie grazie all’incuria degli investigatori nella gestione dei campioni biologici, nonostante gli esami del DNA rinvenuto sulla scena del crimine fossero univoci nell’identificarlo).” Così MONTI A., La conservazione del DNA Nòva Ilsole24Ore del 27 agosto 2009, disponibile all’indirizzo http://www.ictlex.net/?p=1078 visitato il 15 settembre 2009. ?
  37. FRUMKIN D., WASSERSTROM A., DAVIDSON A., GRAFIT A., Authentication of forensic DNA samples in Forensic Science: genetics luglio 2009 disponibile all’indirizzo www.fsigenetics.com visitato il 15 settembre 2009. ?
  38. “Occorre innanzitutto precisare che non è compito di questo Tribunale determinare un protocollo relativo alle procedure informatiche forensi, ma semmai verificare se il metodo utilizzato dalla p.g. nel caso in esame abbia concretamente alterato alcuni dei dati ricercati. In altre parole, non è permesso al Tribunale escludere a priori i risultati di una tecnica informatica utilizzata a fini forensi solo perché alcune fonti ritengono ve ne siano di più scientificamente corrette, in assenza della allegazione di fatti che suggeriscano che si possa essere astrattamente verificata nel caso concreto una qualsiasi forma di alterazione dei dati e senza che venga indicata la fase delle procedure durante la quale si ritiene essere avvenuta la possibile alterazione. In termini generali, quando anche il metodo utilizzato dalla p.g. non dovesse ritenersi conforme alla migliore pratica scientifica, in difetto di prova di una alterazione concreta, conduce a risultati che sono, per il principio di cui all’art. 192 c.p.p., liberamente valutabili dal giudice alla luce del contesto probatorio complessivo (fermo restando che maggiore è la scientificità del metodo scelto, minori saranno i riscontri che il giudice è chiamato a considerare per ritenere attendibili gli esiti delle operazioni tecniche).” Così Trib. Bologna, sentenza 22 dicembre 2005 n. 1823. ?
  39. “Va subito precisato che siccome gli agenti operanti non hanno preso adeguate misure volte a garantire l’identità del files oggetto di trasmissione … il perito ha correttamente sottolineato che i files rinvenuti sotto la predetta directory non possono essere identificati in senso tecnico come gli stessi oggetto di trasmissione da parte della p.g., bensì come files di identico contenuto.” Trib. Civitavecchia, sentenza 27 ottobre 2004 n. 1277. ?
  40. LUPARIA L., ZICCARDI G., Investigazione penale e tecnologia informatica. L’accertamento del reato tra progresso scientifico e garanzie fondamentali Milano 2007. ?
  41. MICHAELIS R., FLANDERS R., WUFF P., A litigator’s guide to DNA Elsevier 2008 pag. 317. ?

Possibly Related Posts: