Tätertyp, l’orrore della “colpa d’autore”

Tätertyp non è il modo sbagliato di scrivere il nome di battesimo di un capo di Stato dell’Europa mediterranea, né un font di ispirazione mitteleuropea e nemmeno la nuova costosa iterazione di una Leica serie M. Tätertyp è una parola orrenda, odiosa e oscena. Tätertyp è l’idea che si deve essere puniti, anche con la morte, per quello che si è e non per quello che si è fatto di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech

Applicando la “colpa d’autore” – questa è la traduzione di questa oscenità – durante il Terzo Reich non era necessario che qualcuno avesse materialmente commesso un crimine. Bastava rientrare nel “tipo”, cioè nella “categoria”, per essere punito o messo a morte. Altro che la Precrimine di Minority Report.

Francesco Forzati, in un articolo pubblicato sulla Rivista italiana di diritto e procedura penale, spiega efficacemente in poche frasi come funziona(va) la colpa d’autore: “Alla centralità del fatto e della colpevolezza (per il fatto) si sostituirà così la colpevolezza per la condotta di vita, desunta dall’antisocialità e dalla indegnità morale espressa dai comportamenti. L’approdo finale del processo di de-materializzazione del reato liberale di matrice illuminista, sarà il Gesinnungsstrafrecht della scuola di Kiel, ovvero la teorizzazione del Täter-Prinzip, quale criterio di legittimazione non tanto e non solo del tipo d’autore, quanto della categoria ontologica del nemico del popolo, che convoglierà la pena su un disvalore interamente etico, etnico ed antropologico.”

Per decenni, almeno nelle democrazie occidentali e certamente in Italia, chi si è occupato di diritto penale si è cullato nella tranquillizzante convinzione che questa barbarie fosse oramai consegnata alla storia e che nessuno sarebbe mai più stato punito per la sua “diversità” rispetto al “sano spirito del popolo” e dunque ai “valori morali” della “collettività”. Poi è arrivato il Duck Test (se qualcosa “sembra” una papera, allora “è” una papera), solo che invece di essere utilizzato per riconoscere i palmipedi, fu applicato al terrorismo. In nome di un ambiguo criterio di “prevenzione” venne sancita la coincidenza fra realtà e percezione. Dunque, se qualcosa – qualcuno – “è” pericoloso come “sembra” posso anche sparargli perché non posso rischiare di sbagliarmi. E se lo ammazzo… poco male: sembrava vero. Infine sono arrivati i social network con la loro tremenda capacità di catalizzare le convinzioni “etiche” di un’orda di irrilevanti individui e innescare delle reazioni distruttive dirette verso chi non rientra, non nel singolo, ma nella miriade di “tipi” creati da ciascuno. Ma è stato con il COVID-19 prima, e con il conflitto Russo-Ucraino poi, che il Täter-Prinzip è risorto definitivamente più forte e micidiale che mai, applicato non solo da branchi di sciacalli rabbiosi che assalivano selvaggiamente chi era colpevole di “dubitare”, ma anche da politici, governanti e professionisti dell’informazione che hanno largamente fatto ricorso alla scorciatoia dello stigma come strumento di controllo sociale e repressione del pensiero critico.

Senza nascondersi dietro un dito è bene intendersi chiaramente: il punto non è “sdoganare” in nome del politically correct superstizioni e idee prive di fondamento e sostenere, dunque, che avevano (diritto ad avere) ragione i “no-vax” o che i “putiniani” sono nel “giusto”. Il diritto di esprimere un’idea non la rende, di per sé, accettabile o corretta. La domanda che ci si dovrebbe porre, invece, è come mai abbiamo deciso che un dibattito pubblico su questioni, letteralmente, di vita o di morte, deve essere condotto da un numero limitato di persone, esaltando visioni etiche (o, più meschinamente, il “secondo me”) di questa o quella “testa parlante” invece di confrontare fatti e argomentazioni sostenute da chi ha cognizione di causa. E dovremmo anche chiederci perché chi è invitato a spiegare fatti che rientrano nel proprio sapere parla per autorità e non per autorevolezza e scivola lentamente ma inesorabilmente nel pretendere di esprimersi con presunzione di verità anche su argomenti dei quali nulla conosce.

C’è, tuttavia, un interrogativo ancora più inquietante che viene posto dalla resurrezione della colpa d’autore, e riguarda quello che siamo diventati (o che abbiamo scoperto di essere sempre stati) grazie all’ubiquità della profilazione e alla diffusa convinzione che, appunto, l’essere umano possa essere classificato in “tipi” anzi, in “typ” non solo per vendergli qualcosa, ma per governarlo sulla base del “posto” che gli spetta.

Esiste un legame blasfemo fra la colpa d’autore del periodo nazista, le moderne strategie di “digital marketing” e quelle di controllo sociale come il nudging basate sulla profilazione. Il legame è la convinzione, peraltro empiricamente dimostrata vera, che la libertà sia tale solo all’interno di una gabbia dalle sbarre solide e con la chiave spezzata nella serratura una volta rinchiusi all’interno. L’importante è che la gabbia sia abbastanza confortevole da non provocare il desiderio di evadere, o abbastanza robusta da scoraggiarlo; e che consenta di fare giustizia sommaria verso chi osa tentare la fuga o anche solo pensare di farlo.

A differenza dell’ideologia nazista, tuttavia, la cifra del nostro tempo non è soltanto il pericoloso ritorno dell’etica di Stato (o meglio di entità sovranazionali) come sostituto della legge (cioè della mediazione politica fra diverse visioni del mondo), ma l’arroganza individuale sulla base della quale rivendicare valore assoluto per convinzioni che, in altri tempi, avrebbero perso significato non appena chiusa alle proprie spalle la porta di casa.

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