Quando le idee diventano la nuova moneta per pagare i servizi digitali. La clausola capestro dei text-to-image

Open AI consente al “cliente pagante” di utilizzare liberamente le immagini prodotte dal text-to-image Dall-E, a condizione di indicare che è stato realizzato tramite la piattaforma in questione. Questo significa, leggendo “al contrario” la clausola, che nulla vieta alla società di limitare i diritti degli autori sul prompt —la descrizione che gli utenti forniscono al software per ottenere un’immagine di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech.

Anche Canva ha recentemente attivato la funzionalità di text-to-image con la novità che le immagini generate grazie ai prompt degli utenti paganti sono acquisite in licenza gratuita per essere utilizzate in attività di marketing.

Come nel caso del modello commerciale “dati in cambio di servizio” o in quello praticato dai social network sugli user-generated content, qualcuno potrebbe dire che il compenso è “incluso” nel prezzo, e che i servizi costerebbero di più se non ci fosse anche questa retrocessione di diritti sui prompt. Sarà, ma almeno nel caso di Canva questo non è chiarito e, soprattutto, se anche fosse, costituirebbe l’ennesimo atto di appropriazione dell’individualità umana che dall’espropriazione dei dati ora si estende a quella delle idee.

L’immagine generata da un’applicazione di text-to-image è, infatti, tutelata dal diritto d’autore dal punto di vista del prompt che la ha generata —cioè dell’atto creativo— non per via dello strumento impiegato. Dall-E, Midjourney, Stable Diffusion e, ora, il text-to-image di Canva sono, infatti, solo degli attrezzi. Sofisticati quanto si vuole, ma solo degli attrezzi.

Quello che fa la differenza è, invece, la capacità umana di scrivere una descrizione creativa dell’immagine (dove per “creativo” non si intende la miriade di idiozie tipo “schizzo a inchiostro in bianco e nero nello stile di Frank Miller di un simpatico gatto-chef in stile cyberpunk, che perpara il sushi in un ristorante stellato alla fine dell’universo per un gruppo di Vogon”).

Dunque, invocare l’esistenza di un qualche diritto dei proprietari delle piattaforme sul pensiero dell’utente, sarebbe come dire che il proprietario degli scalpelli usati da Michelangelo per scolpire la Pietà possa rivendicare un qualche diritto sull’opera perché senza di loro l’artista non avrebbe potuto creare il capolavoro. Ovviamente, questo non è possibile perché lo strumento non ha soggettività, ma poco importa. Mentre gli “esperti” si interrogano sul “diritto dell’AI”, il mercato risolve pragmaticamente la questione con il “coltellino svizzero” del copyright: la licenza d’uso. Cioè un tradizionale, vetusto, polveroso ma tremendamente efficace strumento giuridico: il contratto.

Sempre grazie al contratto anche Canva, come Open AI, condiziona la libertà nella fruizione del software non solo riservandosi il potere di bloccare attivamente prompt di contenuto esplicito (ma non illegale), e quelli che rappresentano uno stereotipo oppure sono affetti da bias anche se non si sa in nome di quali regole.

Questa scelta rinforza la constatazione di quanto il controllo “etico” sul pensiero delle persone stia raggiungendo nuovi e più preoccupanti livelli di pervasività. Un ristretto numero di “eticisti” più o meno ignoti al grande pubblico e probabilmente affiancati da schiere di avvocati e giuristi, ha il potere di decidere se si può usare o meno —no, su Dall-E non è possibile— il gergo fotografico “shot” per indicare uno scatto, perché il significato originario della parola è “colpo”. Fino a quando si tratta di fotografie, poco male, ma è chiaro che non stiamo parlando di questo.

Il tema dell’appropriazione delle idee arriva da lontano. Risale ai tempi delle grida di allarme sul controllo dei vocabolari e dei controllori ortografici. Era il 2003, meno di vent’anni fa ma sembrano trascorsi secoli, da quando scrivevo che

“Si stanno creando generazioni di analfabeti funzionali asserviti all’uso acritico di una sola piattaforma. Utenti che utilizzano già dei sistemi senza alcuna consapevolezza di ciò che stanno facendo. E così, quando il correttore ortografico dirà che la parola “democrazia” non è presente nel vocabolario, senza farsi domande smetteranno semplicemente di usarla. E di pensarla.”

Oggi, non solo questo incubo che all’epoca sembrava distopico ha iniziato a materializzarsi, ma lo fa assumendo forme più spaventose.

Scrivere un prompt equivale a “programmare” una piattaforma di Text-to-image e a maggior ragione un sistema di traduzione automatica. Ma per farlo in modo efficiente bisogna utilizzare le forme sintattiche e grammaticali che funzionano meglio e non necessariamente quelle più creative. La conseguenza è che il linguaggio si piega alle necessità o alle limitazioni del software e si impoverisce progressivamente. Fino a che punto e quando questo accadrà non è dato di saperlo. Tuttavia, come dimostrano le scelte strategiche dei padroni della tecnologia, ci sono già le premesse che portano alla perdita del controllo sulle parole, e dunque sul pensiero, in favore di un gruppo ristretto di soggetti.

Ne riparliamo fra vent’anni, sempre se saremo in grado di esprimerci in modo comprensibile agli umani, o se avremo il diritto di farlo senza dover pagare una licenza d’uso.

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