So long, Apple, welcome Linux

Con l’uscita di OSX Ventura ho deciso di abbandonare l’uso dei prodotti Apple e di utilizzare esclusivamente Linux. Per questa scelta l’azienda di Cupertino non perderà certo fatturato – né i suoi dirigenti, il sonno – ma tant’è. di Andrea Monti Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech

I requisiti minimi del nuovo sistema operativo sono la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Da tempo un paio di iPad non certo (all’epoca) economici sono ridotti al ruolo di orologio da parete – nemmeno preciso, peraltro. MacPro e iMac (all’epoca) supervitaminizzati sono sostanzialmente messi in pensione. Ora, OS X Ventura condanna alla quiescenza un MacBook Pro del 2013 e il mio – ma posso considerarlo tale? – “Trashcan”, il costosissimo Macpro “a barilotto”, le cui specifiche lo rendono ancora oggi una macchina di fascia medio-alta, ma non “degna” di ospitare l’illustre nuovo “spirito”. Potrò “godere” delle “novità” sul hardware più recente che non è ancora stato reso artificialmente incompatibile, ma non è questo il punto.

Non ci sono motivi tecnici per la scelta di Apple dal momento che con un processo un po’ laborioso è possibile superare il blocco e utilizzare normalmente il sistema operativo anche su modelli più vecchi, addirittura risalenti al 2012. In altri termini: la “messa fuori servizio” di un computer costato caro come il fuoco e ancora perfettamente in grado di reggere alle richieste dell’ecosistema digitale viene stabilita in nome di pure esigenze commerciali.

Certo, si potrebbe rilevare che il computer con il vecchio sistema operativo continua a funzionare lo stesso e che dopo quasi dieci anni non si può pretendere che il supporto continui ancora ad essere erogato. E perché no?

La mia Nikon F3 (per non parlare di una vecchia Voigtländer Bessa R con attacco M) con i relativi obiettivi funzionano ancora benissimo a distanza di ben più di dieci anni e anche il mio Gibson Les Paul del 1987 suona anche meglio di quando lo comprai. Inoltre, ero, sono e rimarrò proprietario di questi strumenti fino a quando non deciderò di disfarmene. Questo è il significato concreto del diritto di proprietà sancito dal Codice civile, che vale per ogni bene, tranne, e arriviamo al punto, che per i device digitali.

Da tempo, infatti, il software è il cavallo di Troia che muove il mercato del hardware – ai tempi si parlava apertamente di monopolio WinTel – e anche Microsoft, Adobe e tanti altri hanno una politica simile a quella di Apple. Da quando, con la necessità di “combattere la pirateria”, è stato introdotto il sistema di attivazione le vecchie licenze di Windows e Office (perfettamente in grado di funzionare su macchine virtualizzate) non sono più utilizzabili anche se regolarmente e profumatamente pagate. Con il passaggio al modello commerciale basato sull’abbonamento, Adobe, fra i primi, ha risolto alla base il problema: no Euro, no Software. Discorso analogo vale per i “software in cloud” messi a disposizione dai vari fornitori.

Se poi anche per i consumatori prendesse piede la finanziarizzazione del hardware il processo di espropriazione a danno dei cittadini sarebbe compiuto. Si passerebbe, infatti, da una condizione per la quale, pagando, si diventa proprietari di qualcosa che dovrebbe conservare un valore d’uso nel tempo a una condizione per la quale a fronte del pagamento si riceve esclusivamente un servizio che richiede di essere pagato sistematicamente, continuativamente e disponibile solo fino a quando ce lo si può permettere.

Il tema della razionalizzazione tecnologica, allora, non riguarda soltanto la pubblica amministrazione e gli apparati dello Stato ma anche i cittadini. Non solo, infatti, esiste il diritto ad esigere che le istituzioni pubbliche funzionino bene gestendo i costi infrastrutturali in modo razionale (e dunque evitando inutili e costosi cambiamenti tecnologici scambiati per “innovazione”); esiste anche il diritto, come dice la legge, di “godere in modo pieno ed esclusivo” di ciò che si acquista, software e computer compresi. E se di questo godimento non si può fruire perché il software non è un prodotto da vendere ma un’opera creativa (come la Divina Commedia?) che si può solo concedere in licenza, allora è ora è il momento di cambiare la legge, a maggior ragione, se il software diventa il modo per rendere inutilizzabile i componenti hardware che lo fanno funzionare.

La UE sta ragionando sul Cyber Resilience Act che potrebbe portare qualche novità sull’argomento, anche se le premesse non sembrano fra le migliori e la pezza, come nel caso della “direttiva caricatori“, potrebbe essere peggiore del buco.

Non sono, questi, i tempi nei quali sostenere modelli industriali basati sull’acquisto di costosi giocattoli per fare sempre le stesse cose. E forse sarebbe arrivato il momento che l’Antitrust si interrogasse sulla possibilità di considerare queste strategie come “pratiche commerciali scorrette” e imporre ai produttori di software di gestire in modo più trasparente le politiche di sviluppo, dichiarando cosa è realmente necessario per migliorare le funzionalità e cosa è “soltanto” cosmetica.

Mai, come oggi, si sono dimostrate profetiche le parole di Richard Stallman,  lungimirante l’intuizione di Linus Torvalds e fondamentale il contributo delle comunità FLOSS. Mai come oggi è importante supportare analoghe iniziative per l’Open Hardware, come Arduino (nel quale, tra l’altro, c’è tanta Italia). Mai come oggi è urgente che le istituzioni ci liberino dalla schiavitù elettronica.

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