I “crimini del Metaverso” e il capitalismo della solitudine

Nuovo gadget, vecchie abitudini. Arriva il social network, ci vuole la legge per il social network. Arrivano blockchain e Nft, ci vuole la legge per blockchain e Nft, arriva il Metaverso, ci vuole la legge (penale) per il Metaverso. È la coazione a ripetere da anni che costringe commentatori ed esperti a invocare nuove regolamentazioni da applicare ai prodotti tecnologici invece di prendere atto che quelle esistenti sono ampiamente sufficienti di Andrea Monti – Inzialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech

Questi sono i danni, non solo culturali, dell’avere considerato veri (“ontologizzato”, direbbero i filosofi) il “ciberspazio” e le altre invenzioni della letteratura di fantascienza e del cinema di genere. Ci sono voluti anni per capire l’ovvio, e cioè che “una diffamazione su Facebook” è una diffamazione un pura e semplice o che “un’ingiuria via Telegram” è un’ingiuria tout-court. Quello che cambia, in altri termini, è il modo in cui vengono commessi gli atti illeciti, ma l’effetto è sempre lo stesso. Applicando, invece, l’approccio del “ci vuole una nuova legge per…” si arriverebbe al paradosso dello scrivere tanti articoli del codice penale quanti sono i modo per ammazzare qualcuno. Dunque, invece di punire l’omicidio a prescindere dal modo con il quale viene commesso, si modificherà il codice penale aggiungendo un articolo per l’omicidio con la pistola, uno per quello con il coltello, uno per quello con il veleno, uno per quello con il bastone, uno per quello con le mani nude e via discorrendo.

Il Metaverso – qualsiasi cosa esso sia – non sfugge a questo destino: “minacce” e “violenze” commesse “contro” le nostre repliche digitalizzate suscitano l’immancabile coazione a ripetere che porta a invocare nuove leggi. Ma sono necessarie? Sicuramente no, per quanto riguarda l’offesa ad onore e reputazione perché, come detto, anche se commessi “nel Metaverso” questo non cambia l’effetto finale, che coinvolge una persona fisica. “Molestie” e “aggressioni” producono un turbamento che (se dimostrabile) rientra senz’altro nell’ambito della violenza privata, delle minacce e – nei casi più gravi – dell’estorsione (a proposito, lo stesso ragionamento si applica alle norme su “cyberbullismo” e “cyberstalking”). Non serve nemmeno dire che violazioni di proprietà industriale (riprodurre marchi sui prop compravenduti) e di copyright sono altrettanto sanzionabili con le norme vigenti.

Al netto dell’ignoranza sul funzionamento di questi servizi di comunicazione elettronica interattiva, la ragione che fonda la richiesta distorta di emanare nuove leggi è la prevalenza data alla percezione psicologica del fenomeno, trascurandone la natura oggettiva.

Usare il “Metaverso” significa, semplicemente, collegarsi a un server e interagire con un software o con altre persone tramite la piattaforma, soli come cani nel chiuso della propria stanza o – come dicevano i classici – in mezzo a una folla. Detta così, il fascino del Metaverso crolla verticalmente, come accadeva all’epoca delle giacche con le spalline: apparenze da giocatore di football americano o da body builder si dissolvevano appena l’esoscheletro di stoffa veniva rimosso. Viceversa, ed è la forza trasformativa dei servizi del genere, tutto avviene “dentro la testa” dell’individuo, in una dimensione psicologica che riguarda solo ed esclusivamente chi la vive. Così come negli anni ’90 la necessità di trasformare in “consumatori” le persone fu basata sull’indurre la convinzione che si potesse essere “unici” comprando prodotti di largo consumo, ai nostri tempi si afferma il capitalismo della solitudine, basato sullo sfruttare l’isolamento di gregge appositamente provocato.

Questa è l’unica “realtà” – affatto virtuale – che conta; tutto il resto, come il Metaverso, è semplicemente una finzione.

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