Liberarsi dalla schiavitù degli analytics (di tutti gli analytics)

Una delle grandi ossessioni che dominano il mondo del digital marketing è la convinzione che gli “analytics” siano indispensabili per capire “cosa” interessa “chi”, come rendere i contenuti più “engaging” e in che modo “monetizzare” quello che viene pubblicato. Questa ossessione è probabilmente legittima per quei siti ad altissimo traffico, che producono una quantità così enorme di interazioni da fornire indicazioni attendibili non solo sull’efficacia dei contenuti ma anche sul funzionamento complessivo del sito che li veicola. Spesso, anche per via della deficienze della normativa di settore e dell’inerzia delle autorità di controllo, il prezzo che gli utenti pagano è il trasferimento anche indiretto alle grandi piattaforme americane di pezzi della propria esistenza, ma questo è un altro tema. Tuttavia, gli analytics soffrono dello stesso destino che, in generale, affligge le statistiche: essere usati —come i lampioni dell’ubriaco di Mark Twain— più per sostenersi che per illuminare la via. Fuor di metafora questo significa rischiare di finire in un circolo vizioso a causa del quale i contenuti sono determinati dall’audience e non viceversa di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech

Analytics e creazione intellettuale

Se, dal punto di vista della pubblicità, massimizzare l’efficacia di un messaggio è perfettamente comprensibile —alla fin fine l’obiettivo è vendere un prodotto al massimo numero possibile del mercato di riferimento— un atteggiamento del genere crea qualche perplessità di principio quando caratterizza la produzione di contenuti intellettuali.

Scrivere, foto-videografare, suonare sono —o dovrebbero essere— atti creativi che prescindono dal “gradimento” del “pubblico”. Questa era l’idea che diede origine alla Convenzione di Berna sul diritto d’autore per proteggere, innanzi tutto, gli atti creativi non (necessariamente) quelli di chi li sfrutta (editori, etichette ecc.). L’artista crea per soddisfare un proprio bisogno interiore di manifestare la propria sensibilità, non per “costruire” un prodotto, posizionato negli scaffali di un supermercato, fra una mozzarella e un detersivo.

Questa trasformazione dell’atto creativo, favorita dai modelli di business basati sull’all you can play che incitano all’abbuffata bulimica di qualsiasi cosa, presuppongono che “l’industria” sforni di continuo “prodotti” per il numero più alto possibile di “consumatori”. Parallelamente, la possibilità di veicolare tramite una piattaforma centralizzata dei contenuti che da soli generano ritorni infinitesimali ma complessivamente “fanno numero” ha come unico fine —già nell’idea dell’autore— di “produrre” per “vendere”.

Intendiamoci, non c’è assolutamente nulla di esecrabile nella industrializzazione dell’atto creativo. Determinati processi economici hanno le loro logiche e se c’è un mercato è ragionevole che si crei un’industria per sfruttarlo. Dunque, è altrettanto ragionevole che un artista si trasformi in qualcosa che sta a metà fra la gallina dalle uova d’oro e l’operaio alla catena di montaggio, per produrre non ciò che (per lui) è bello ma ciò che (agli altri) piace. Anche nel mondo dei prodotti culturali (che ossimoro!) esiste il fenomeno dei farmaci me too. Un’azienda produce un antireumatico, i concorrenti fanno lo stesso per non lasciare una nicchia di mercato a chi è arrivato per primo. Allo stesso modo, per fare un esempio con la musica, quando un’etichetta lancia un’artista con uno stile che fa successo, si moltiplicano le imitazioni di look, modalità compositive, testi, suoni e via discorrendo, fino a quando non arriva il prossimo, che fa ricominciare il giro.

È chiaro che in un ciclo produttivo del genere gli analytics —di tutti i tipi e provenienti da qualsiasi fonte— sono fondamentali. Quante più informazioni anche anonime riesco a raccogliere sul pubblico, tanto più potrò progettare un prodotto su misura dei suoi gusti. Tuttavia, questo significa innescare una corsa al ribasso sulla qualità dei contenuti e a prescindere dal loro posizionamento più o meno colto. Muddy Waters potrà non essere stato virtuoso come Julian Bream, ma nessuno può discutere il valore della sua musica. Allo stesso modo, Van Gogh non sarà Caravaggio, ma non per questo le sue opere sono di inferiore valore.

Usare gli analytics per produrre —ma prima ancora per determinare i contenuti degli —atti creativi, dunque, ripropone il dibattito sull’estetica dell’arte e sul ruolo di chi la pratica e lo estende a chi ne trae vantaggio economico che diventa parte attiva del processo di costruzione.

Analytics e informazione

Se in ambito artistico il ricorso agli analytics per decidere a tavolino quale opera creare è del tutto lecito in quanto manifestazione della assoluta libertà dell’artista, più discutibile è il loro utilizzo quando si parla di informazione professionale.

La proliferazione di “testate giornalistiche” resa possibile dall’oramai storica ordinanza del tribunale di Roma che nel 1997 autorizzò l’iscrizione nel registro della stampa di una testata “trasmessa … con i protocolli della rete internet” ha amplificato il fenomeno del clickbait e la caccia a notizie che generano traffico pur che sia, a scapito di analisi, approfondimenti e selezione di contenuti basati sul ruolo proprio del giornalista di mediatore fra gli eventi e i lettori.

Liberarsi dalla schiavitù degli analytics sarebbe un gesto coraggioso, che restituirebbe la libertà totale di decidere cosa vale la pena di offrire all’attenzione del pubblico, recuperando la funzione di stimolo alla riflessione e al dibattito. Sarebbe un modo per sottrarsi all’effetto perverso del confirmation bias, innescato non solo e non tanto dagli “algoritmi” dei “social” ma anche e in modo significativo da chi —per vocazione o per mandato— dovrebbe essere intelletualmente libero da qualsiasi condizionamento, anche solo indiretto.

Analytics e dittatura dell’audience

Il tema è, con tutta evidenza, complesso perché non è facile stabilire una linea che distingua la giusta necessità di trarre un vantaggio economico dal proprio lavoro o dalla propria creatività dalla loro sottoposizione alla “dittatura dell’audience”. Bisognerebbe chiedersi se abbia senso applicare anche a questi ambiti le logiche proprie del settore dell’advertising —non perché funzionino male, ma perché, al contrario, funzionano molto bene ma con degli effetti collaterali tenuti in poca considerazione.

Forse, aprire una riflessione su questo argomento aiuterebbe a capire come bilanciare due pesi apparentemente impossibili da mettere sul piatto della stadera.

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