Dalla parte di Jorge da Burgos (Ovvero sull’informazione e sulla consapevolezza di non sapere)

Ho udito persone che ridevano su cose risibili e ho ricordato loro uno dei principi della nostra regola. E come dice il salmista, se il monaco si deve astenere dai discorsi buoni per il voto di silenzio, a quanto maggior ragione deve sottrarsi ai discorsi cattivi. E come ci sono discorsi cattivi ci sono immagini cattive. E sono quelle che mentono circa la forma della creazione e mostrano il mondo al contrario di ciò che deve essere, è sempre stato e sempre sarà nei secoli dei secoli sino alla consunzione dei tempi di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech.Così comincia la lunga requisitoria con la quale Jorge da Burgos, il bibliotecario del monastero nel quale si svolgono i fatti narrati ne Il nome della rosa affronta Guglielmo da Baskerville, l’inquisitore francescano incaricato di scoprire l’autore di una morte misteriosa avvenuta poco tempo prima.

Jorge vuole una conoscenza assoluta, Guglielmo pratica il dubbio. Jorge deferisce all’autorità di padri e dottori il compito di stabilire la verità, Guglielmo si serve della ragione. Jorge condanna il riso perché conduce allontana dalla legge, Guglielmo lo considera manifestazione di razionalità. Nella tassonomia dei personaggi del libro di Umberto Eco Jorge è il cattivo, Guglielmo il buono.

Ma è veramente così? Nei dibattiti pubblici su questioni esiziali per il Paese (ma anche su querelle di vario tipo e minore importanza), il passaggio dalla critica di un’idea al giudizio sulla persona avviene sistematicamente e con frequenza sempre più allarmante. Non solo i social network – che oramai sarebbe ora di chiamare esclusivamente social media – ma soprattutto i programmi di informazione radiotelevisiva sono caratterizzati dal ricorso sistematico all’argumentum ad personam (“sei un –ista!!!”). La forza e la straordinaria efficacia della character assassination (screditare l’individuo per togliere valore a quello che dice e a prescindere da cosa dice) dipendono dal fatto che questa tecnica non ha bisogno di conoscenza per produrre effetto. Una volta “appiccicata” l’etichetta infame al contraddittore non c’è bisogno di altro. Il pubblico —comodamente ridotto al livello di tifoso— può scegliere in quale curva sedersi senza bisogno di conoscere né di capire.

A questo si aggiunge la “inobiettività” più o meno esplicita di molti conduttori. Alcuni si inseriscono discretamente nel ritmo delle discussioni per far risaltare la propria opinione. Altri, orientano il dibattito in modo smaccatamente schierato. Pochissimi sono in grado di gestire un contraddittorio dichiarando “da che parte stanno” pur mantenendo rigore, obiettività e metodo (che sono i fattori distintivi di chi fa informazione rispetto a chi, per le ragioni più diverse, “sostiene una tesi”).

Siamo di fronte a un mutamento in corso da tempo del modo di operare dei professionisti del settore. Non più information maker —intermediari fra gli eventi e il pubblico— ma opinion teller (si, teller, non maker) cioè soggetti che esprimono la propria opinione e la impongono come chiave di lettura per “spiegare” gli eventi senza avere titolo, conoscenza o autorevolezza per farlo.

Questo è evidente quando uno degli “esperti di turno” mette in dubbio le loro certezze, provocando imbarazzi e il tentativo di “ristabilire la verità” utilizzando toni apodittici. Accade perché invece di rispettare la conoscenza – e di ammettere di esserne privi – prevale il ricorso alle parole d’ordine, a concetti raffazzonati e messi insieme orecchiando qui e là, all’arroganza del voler parlare di tutto e su tutto. Dalla pandemia alla Costituzione, dalla geopolitica alla guerra. Non è dato sapere con certezza se questo cambiamento sia stato causato dalla necessità di essere on air e on line senza interruzione (e dunque senza il tempo di studiare) o se le necessità economiche di un modello industrializzato dell’informazione abbiano richiesto l’abbassamento della qualità dei suoi operatori al punto di non distinguere più ruoli e competenze.

Sia come sia, il risultato è il preoccupante assottigliarsi del confine che separa l’informazione dall’opinione. La cieca partigianeria (cioè la propaganda) prevale sull’esercizio del pensiero critico, pur ideologicamente schierato. Coloro che dovrebbero rappresentare un argine a questa deriva, ne diventano, invece, parte attiva. Se le cose stanno effettivamente così, viene allora da domandarsi se non avesse ragione Jorge da Burgos quando rivendicava il ruolo dei padri e dei dottori come garanti del sapere. Se non sia il caso – almeno fra chi “fa” informazione – di avere quel timor domini che i Salmi considerano initium sapientiae. Se, infine, non sia da ricordare, di fronte a domande che vanno oltre la propria conoscenza, il monito di Apelle al ciabattino rispondendo, semplicemente e prima di tutto a se stessi, “non lo so”.

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