La Corte europea dei diritti un umani riconosce il diritto a cancellare la storia

La sentenza emessa sul caso 77419/16 (Biancardi v Italy) dalla Prima Sezione della Corte Europea dei diritti umani lo scorso 25 novembre 2021 aumenta il raggio d’azione del “diritto all’oblio” che ritiene applicabile anche direttamente alle testate online e non solo ai motori di ricerca di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – Un blog di Italian Tech.

Il caso riguarda una testata online italiana condannata in sede civile dalla Corte di cassazione per non avere deindicizzato un articolo di cronaca ritenuto non più attuale e dunque —questo è il nodo— privo di interesse pubblico perché relativo a una “persona comune” e non a un personaggio pubblico.

Tentando una mediazione impossibile, la Corte europea sostiene quanto deciso dalla Cassazione italiana e conferma che un articolo pur non diffamatorio (e dunque pubblicato lecitamente) relativo a una “persona comune” non va cancellato, ma deve essere “solo” deindicizzato sia dai motori di ricerca, sia dagli editori che lo hanno pubblicato. In altri termini, l’articolo può anche rimanere online ma non deve essere possibile recuperarlo se non si conosce il link diretto per raggiungerlo.

In applicazione di questo principio, le testate online — tutte le testate online— dovranno rimettere mano ai propri archivi per valutare individualmente ogni singolo articolo e decidere se de-indicizzarlo anche dai propri motori di ricerca, implementare funzioni di “autodeindicizzazione” nelle proprie piattaforme, e dovranno porsi addirittura il problema, per il futuro, di cosa pubblicare o meno per evitare di essere sommersi da ricorsi e azioni giudiziarie.

L’importanza della memoria per conservare il sapere

Nonostante il contentino dell’escludere l’obbligo di cancellazione dei contenuti, di fatto la Corte nega (o non prende in considerazione) il ruolo fondamentale delle notizie giornalistiche di cronaca “ordinaria” per la ricerca storica e sociologica. La conservazione della memoria collettiva, la possibilità per gli studiosi di sapere “come eravamo” e per capire come siamo diventati e come diventeremo, la ricostruzione della storia locale sono essenziali per l’identità di un Paese. Grazie al lavoro dei giornalisti del passato quante vicende sono state riscritte, quante persone riabilitate — o invece ritenute responsabili — per fatti che a posteriori è stato possibile rileggere, quanti cold case sono e potranno essere riaperti?

La fine della ricerca storica?

Stabilire il principio che solo le notizie che riguardano personaggi pubblici possono rimanere accessibili è una discriminazione paternalistica ma soprattutto, appunto, un colpo al sistema della fonti sulla base delle quali gli storici compiono le proprie analisi.

Esiste, in altri termini, un patto che attraversa il tempo fra i giornalisti di oggi e gli studiosi del futuro in base al quale oggi creiamo e custodiamo gli elementi che domani consentiranno di  continuare a capire e spiegare il mondo.

Un malinteso “senso della privacy”

La decisione della Corte rompe questo patto ed è l’ennesima prova dei danni provocati dalla imperante percezione isterica e distorta della “privacy” e dall’applicazione ideologica della normativa sulla protezione dei dati personali. In nome di questo feticcio abbiamo rinunciato a fare un contact-tracing efficace dei contagi da Coronavirus e ora avanziamo a tappe forzate verso la cancellazione della memoria.

Da queste premesse, è facile capire che ci sono diversi elementi critici nella decisione Biancardi.

In primo luogo, la Corte afferma che il diritto alla protezione dei dati personali ha il potere di “interferire” con la libertà di espressione. Tuttavia, la Corte non considera che la libertà di espressione, è cosa diversa dalla funzione e dal diritto alla libertà di stampa —cioè di informazione— tutelato dalla Costituzione. Dunque, l’interesse pubblico a garantire l’indipendenza dei giornalisti dovrebbe essere prevalente ma i giudici la pensano in un altro modo.

In secondo luogo, ma non meno importante, c’è la considerazione che la protezione dei dati personali è un strumentale alla tutela dei diritti fondamentali. Quindi non si può invocare la protezione dei dati personali a tutela del singolo quando è in gioco un interesse pubblico. Il ragionamento è identico a quello che sostiene la necessità di vaccinarsi: il diritto del singolo non può prevalere sull’interesse collettivo. Nel primo caso al controllo diffuso dei cittadini sul potere e alla conservazione della memoria, nel secondo alla salute pubblica. Tanto è vero questo, che il Regolamento sulla protezione dei dati personali consente il diritto alla cancellazione dei propri dati personali escludendo esplicitamente il caso della libertà di espressione, nei cui confronti il diritto a chiedere di cancellare i dati non opera.

In terzo luogo, ma questo è un argomento di interesse più per politici e giuristi, la normativa comunitaria, di qualsiasi tipo, non può incidere sugli interessi nazionali e sui diritti garantiti dalla Costituzione. Quindi la Corte avrebbe dovuto considerare anche questo profilo nella sua decisione e domandarsi se le “leggi” comunitarie potevano essere superare o meno la Costituzione italiana, ma non lo ha fatto.

Perché questa sentenza è grave

Scire est reminisci —sapere è ricordare— teorizzava Platone e dunque, come chiosava a lezione il mio professore di diritto penale, non ricordare vuol dire non sapere. Dunque, una sentenza che impone di cancellare la memoria è una sentenza che vieta di conoscere. In altri termini, in nome del “diritto all’oblio” di un singolo, la decisione della Corte europea contribuisce a condannare l’intera società alla barbarie dell’ignoranza e pone le basi  per la più imponente operazione di censura indiretta dei nostri tempi.

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