Non è la privacy il problema dei RayBan targati Facebook

Gli “smart glass” di Facebook suscitano le polemiche già sentite ai tempi degli “occhiali intelligenti” di Google. Ma la privacy non è il vero problema di oggetti del genere di Andrea Monti – Originariamente pubblicato da PC Professionale n. 368

L’annuncio della commercializzazione di una montatura RayBan che incorpora funzioni “smart” in grado di raccogliere immagini, suoni e —in prospettiva— dati di qualsiasi altra natura per veicolarli sull’account Facebook di chi li indossa ha suscitato le solite e miopi polemiche sui “rischi per la privacy” già sentite ai tempi dei Google Glass. In realtà questi apparati —come in generale tutto ciò che è IoT— hanno delle controindicazioni che vanno ben oltre il tema grandemente irrilevante della “privacy”. Essi contribuiscono, infatti, a inserire fra la persona e la realtà un middleware che diventa la lente attraverso la quale siamo forzati a interagire con il mondo attorno a noi.

Sgombriamo il campo, prima di tutto, dalle questioni giuridiche.

La Corte di cassazione è granitica nell’affermare che nei luoghi pubblici non c’è reasonable privacy expectation. Negli spazi pubblici non posso impedire a qualcuno di vedere quello che sto facendo e di ricordare ciò che ha visto. Dunque, se voglio rivendicare la mia privacy devo fare in modo che gli altri non possano vedermi o ascoltarni. Questo è il motivo per il quale il codice penale punisce le interferenze illecite nella vita privata commesse tramite strumenti di ripresa audiovisiva e i giudici hanno considerato illecito aggirare muri e recinzioni oppure intrufolarsi in aree non pubbliche di locali per fotografare VIP o personaggi pubblici. Questo spiega perché, ad esempio, le Corti francesi hanno ritenuto lecita la pubblicazione di un reportage che documentava la vita quotidiana nella metropolitana di Parigi o lo scatto che ritraeva una signora con il proprio cane che, secondo i giudici, non ne ledeva l’intimità o l’immagine. Diverso è, ovviamente, il caso di chi raccoglie immagini e video in modo indiscriminato e senza alcuna finalità culturale e documentaristica (che sono alla base della Street-Photography resa famosa da Cartier-Bresson, Vivian Maier e altri meno famosi ma non meno bravi fotografi che catturano schegge di realtà).

Se proprio dobbiamo individuare una criticità nell’utilizzo dei RayBan di Facebook dovremmo piuttosto parlare del diritto alla protezione della dignità individuale che è cosa diversa dalla “privacy”.

Anche qui torna utile un dibattito che animò il mondo della fotografia negli anni Settanta: quello sull’estetica della miseria. Se astrattamente è legittimo fotografare un mendicante o una persona in condizioni di miseria è eticamente corretto estetizzare sofferenza e dolore? La risposta è nel fine dello scatto: un conto è documentare una situazione per una denuncia sociale, un altro conto è perseguire un fine puramente “estetico”. Quindi, la stessa immagine può essere e non essere “accettabile” in funzione del motivo che ha spinto il fotografo a riprenderla. È più difficile sostenere una tesi del genere quando il ruolo di selezionatore dell’immagine o del video è delegato a un sistema di ripresa che non esercita un giudizio critico su quello che sta impressionando il sensore.

Sotto un diverso profilo, ciò che rende problematico l’uso degli smart glass non è tanto il fatto che consentono di riprendere in modo più o meno evidente agli altri quello che abbiamo attorno, quanto il fatto che i dati generati dall’utente finiscono nell’oceano informativo di Facebook e contribuiscono ad aumentare le sue capacità di analisi, profilazione e dunque di orientamento culturale e ideologico delle persone. Questa è una distinzione essenziale che dimostra, ancora una volta, quanto sia fuorviante essere ossessionati dalla “privacy” al punto da non accorgersi di altro.

Non so se i metodi per profilare basati sull’intersezione fra le teorie di Jung, Skinner e la “data-science” funzionino sul serio. Come nel caso dell’astrologia, ciò che conta è che la gente ci crede e che modifica i propri comportamenti di conseguenza. Quando, durante la seconda guerra mondiale gli Inglesi assunsero un astrologo per prevedere le decisioni di Hitler, non lo fecero perché ci credevano, ma perché ci credeva il Führer. Sta di fatto, però, che l’accumulazione massiva dei dati più disparati relativi ad ogni aspetto della vita individuale è alla base della disconnessione fra l’individuo e il mondo che lo circonda.

Siamo di fronte all’evoluzione distopica di quello che Neal Stephenson (l’autore di Cryptonomicon e di saghe steam-punk) aveva intuito già nel 1999 con In the beginning was the command line. In questo libro Stephenson parlava delle interfacce e dei monitor incorporati nell’elettronica di consumo (videocamere, per la precisione), e del fatto che la realtà era determinata sempre di più dalla creazione di fenomeni “fintamente reali”. Così, scrive Stephenson, quando si trova di fronte alla Jungla indiana di Disneyland, il visitatore si trova di fronte a una finzione che è una replica perfetta, anzi migliore, dell’originale; non solo: invece di guardarla direttamente lo fa tramite la mediazione del monitor della sua telecamerina. Premiamo il tasto di avanzamento rapido e, oltre che nel tempo, muoviamoci nello spazio. Dalla Florida fin de siècle arriviamo alla Seoul di oggi dove una replica perfetta della Fontana di Trevi campeggia maestosa in una stazione della metropolitana.

Disneyland, la Fontana di Trevi sudcoreana e le tante iniziative analoghe sono perfettamente inserite nel processo di decontestualizzazione della realtà intuito da Stephenson, ma sono ancora, tutto sommato, sotto controllo. Questo non vale per i wearable device che accelerano ed estendono questo processo a velocità e dimensioni senza precedenti ma soprattutto senza controllo.

Concludendo, piuttosto che preoccuparci per i RayBan di Facebook e chiedere alla legge di intervenire dovremmo capire che non necessariamente l’esistenza di uno strumento ci obbliga ad utilizzarlo. Questo vale per gli smartglass, per l’IoT e, in generale, per tutti quegli strumenti che, con la scusa di facilitarci la vita, ci costringono sempre di più a vivere in una gabbia dorata. Che sarà anche, forse, dorata, ma rimane sempre e prima di tutto una gabbia.

 

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