Perché Kalashnikov ha fatto un fucile con streaming incorporato

Le repliche innocue delle armi usate in film e videogiochi sono una presenza costante nel mondo dei cosplayer e degli appassionati di fantascienza. Mai tuttavia, una vera arma da fuoco era stata “pensata” come un gadget per frequentatori di social network. Sembra un giocattolo, ma spara davvero di Andrea Monti – Originariamente pubblicato da Strategikon – Italian Tech

Recentemente, la fabbrica d’armi russa produttrice degli iconici AK-47, JSC Kalashnikov Concern, ha realizzato due nuovi modelli di fucili a pompa in calibro 12/76. La notizia non dovrebbe essere di particolare interesse per chi è estraneo al mondo delle armi, se non per il fatto che si tratta di due “oggetti” dichiaratamente destinati alla Generation Z  e al mondo del social-networking. I due “giocattoli”, infatti, hanno un design da videogioco o da film di fantascienza e, sopratutto, incorporano un computer che registra i dati sul numero e sulla frequenza di fuoco, una webcam in grado di trasmettere in soggettiva lo streaming dei movimenti del tiratore. Immancabilmente interagiscono con lo smartphone.

In sé, queste funzionalità non sono nuove. Sia in ambito militare e di polizia, sia in ambito sportivo è ampiamente diffuso l’impiego di bodycam per riprendere le azioni degli operatori, e i social-network traboccano di video nei quali appassionati e fanatici fanno sfoggio delle loro armi e del modo in cui si usano. Analogamente, l’aspetto aggressivo di determinate piattaforme come i fucili tipo M4 – disponibili sul mercato civile anche italiano – ha indotto alcuni Paesi  come il Canada o la Nuova Zelanda a metterle al bando.

 

La differenza fra il passato e il presente, dunque, non è tanto sulla possibilità di integrare armi dall’aspetto “cattivo” e ad uso individuale, computer e streaming, quanto sul motivo che ha spinto alla creazione dei due nuovi fucili.

Come in ogni oggetto meccanico la componente estetica ha sicuramente avuto un ruolo importante nella progettazione di lame e armi da fuoco. Molti musei contengono sezioni dedicate alle tradizioni armiere dei Paesi, come l’Italia, che si sono distinti per la capacità di coniugare estetica e funzionalità anche in oggetti destinati all’offesa. Per lungo tempo, tuttavia, un’arma è stata “soltanto” un’arma, cioè un oggetto da usare per uccidere (in guerra, per difendersi, per cacciare) o per gareggiare. Progressivamente però il mondo dell’intrattenimento ha iconizzato il ruolo degli strumenti offensivi, facendoli diventare un elemento essenziale dell’attrattività di un film o di un videogioco. Era solo questione di tempo, dunque, perché accadesse lo spillover: non più armi vere che diventano gadget cinematografici o digitali, ma gadget ispirati alle fantasie e pensati per essere armi vere da far usare a chi vuole solo “giocare”.

La prima reazione di fronte ad oggetti del genere è quella di considerarli il perfetto strumento per le stragi in streaming, un “format” al quale siamo stati già drammaticamente esposti tantissime volte. Sarebbe una spiegazione semplicistica perché gli eventi dimostrano che non è lo strumento in sé a provocare atti di follia o ad agevolare azioni terroristiche.

Dovremmo, piuttosto, interrogarci sul perché il mercato ritiene che ci sia spazio per un certo tipo di prodotto basato sulla gamification dell’uso di armi da fuoco e sulla conseguente desensibilizzazione alla violenza. Queste sono, infatti, le necessarie precondizioni per rendere socialmente accettabile lo sfoggiare, insieme allo smartphone di tendenza, l’ultimo gadget che spara proiettili magnum per la caccia al cinghiale.

Al momento questi fucili a pompa non sono importati in Italia ma, come detto, si tratta di una circostanza irrilevante perché non sono loro a costituire un problema e non sarà la (relativa) difficoltà di agganciare una telecamera ad un’arma che bloccherà esibizionismi criminali.

Invece, la scelta di marketing di Kalashnikov lascia pensare ad un cambiamento oramai percepibile del rapporto delle nuove generazioni con l’anestetizzazione alla violenza. Per ora non c’è modo di sapere  se un mercato del genere abbia o stia per avere “numeri” che rendono sostenibili determinate scelte commerciali. Di certo, come in ogni attività di impresa, i conti devono tornare e alla contrazione di una nicchia di clientela deve corrispondere la ricerca di nuove categorie di clienti.

Generalizzando, la necessità commerciale – di per sé non illegittima – di ampliare il mercato delle armi da fuoco richiede valutazioni attente da parte di chi deve compiere scelte di politica pubblica non solo e non tanto dal punto di vista della regolamentazione delle armi, ma da quello dell’intrattenimento (cinematografico) che di recente ha beneficiato di maggiore flessibilità sul controllo dei contenuti che veicola.

Da un lato, il dossier armi è molto complesso e mal si presta a semplificazioni radicali all’insegna del “disarmo totale” o, al contrario, del preteso diritto a possedere interi arsenali invece del numero di armi necessario all’effettivo impiego.

Dall’altro lato, è difficile dimostrare con certezza un collegamento fra fatti di sangue ed esposizione continua alla violenza e alla sua iconizzazione per via di film e videogiochi. Tuttavia, da tempo questa tesi ha cominciato a scricchiolare. Sarebbe dunque opportuno capire se, a fronte di evidenti variazioni nel sistema di valori individuali, sia ancora sostenibile che non c’è collegamento fra realtà e finzione.

Quanto meno sotto il profilo commerciale, Kalashnikov ha già dato una risposta

Possibly Related Posts: