Un governo può censurare le critiche che arrivano via social network?

Negli Stati Uniti un giudice della Corte suprema equipara le piattaforme a servizi collettivi per esprimersi sulla censura online. Maggiori diritti per gli utenti o deresponsabilizzazione dei social? di Andrea Monti – Originariamente pubblicato da Wired.it

Sempre più spesso le piattaforme di social networking e instant messaging bloccano o cancellano account di utenti ritenuti responsabili —per le ragioni più varie — di avere violato le condizioni contrattuali del servizio. Questo destino ha colpito anche esponenti politici e governativi, il più illustre dei quali è sicuramente l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Di conseguenza, da più parti è stato sollevato il problema se veramente si può accettare che la “semplice” applicazione di termini contrattuali possa limitare il diritto costituzionalmente garantito alla libertà di espressione e all’esercizio dei diritti politici.

Esiste, tuttavia, anche un altro tema che non ha ricevuto altrettanta attenzione: chi pubblica critiche a un esponente governativo sul social account di quest’ultimo può essere bloccato? In altri termini: se una carica istituzionale si espone tramite un servizio privato, ha oppure no il diritto di comportarsi come un utente normale e “bannare” chi lo critica? Il tema non riguarda soltanto gli Stati Uniti perché anche in Italia esponenti politici, parlamentari e rappresentanti di governo fanno ampio uso dei social network, non sempre distinguendo l’uso personale da quello istituzionale.

Il certiorari nella causa Knight First Amendment Institute vs Donald Trump

Una risposta indiretta a queste domande arriva dagli Stati Uniti, con una sentenza della Corte suprema dello scorso 5 aprile 2021. La causa, arrivata fino al massimo grado di giudizio, era stata intentata dal Knight First Amendment Institute della Columbia University contro Donald Trump, nella sua qualità di presidente in carica. L’accusa —non nuova e già riconosciuta fondata da altre sentenze— era di avere illegittimamente bloccato gli utenti che lo criticavano sul proprio profilo Twitter privato.

Per via del cambio di vertice alla Casa Bianca e dell’intervenuta chiusura dell’account Twitter di Donald Trump la Corte ha dichiarato la cessazione della materia del contendere. Di conseguenza, non è entrata nel merito del certiorari (la richiesta di emanazione di un principio di diritto vincolante per le corti inferiori) presentato dall’ex presidente, per sapere

se il primo emendamento priva un esponente del governo del diritto di controllare il proprio account personale di Twitter bloccando quelli di terzi se usa quell’account anche per annunciare azioni ufficiali e scelte di politica pubblica.

La sentenza della Corte suprema, tuttavia, è stata anche l’occasione per analizzare il ruolo e i poteri acquisiti dalle multinazionali statunitensi che, di fatto, sono diventate i controllori della comunicazione elettronica interattiva.

Il diritto di bannare vale anche per le istituzioni?

Sulla prima questione, quella relativa al diritto di un esponente governativo di bannare un utente dall’accesso a un profilo privato (nel senso di non relativo ad attività pubbliche), va detto che le corti americane si erano già pronunciate, nel 2019, affermando che questo non era possibile.

È necessario, tuttavia, fare alcune considerazioni ulteriori su questo argomento. Da privato cittadino, in nessun modo il diritto alla libertà di parola potrebbe costringermi a interagire con persone con cui non sono d’accordo. Proprio in nome di questo diritto posso decidere con chi voglio condividere le mie informazioni personali. Se nonostante la propria natura un profilo privato fosse considerato sottoposto (sottoposto, non protetto) all’obbligo di tutelare a libertà di parola, ciascun cittadino perderebbe il diritto di decidere con chi vuole interagire.

È chiaro, invece, che se parliamo di un account istituzionale il problema non si pone: impedire a un cittadino di criticare l’esecutivo o il Parlamento è semplicemente inaccettabile. Gli esponenti istituzionali, tuttavia, non possono comprimere il diritto di critica al loro operato nemmeno invocando la natura “personale” di un profilo social. Dunque, nel caso Trump, è irrilevante che l’account Twitter non fosse quello della Casa Bianca. Nel momento in cui egli lo usava per diffondere messaggi politici nella veste di presidente era soggetto al controllo e alla critica dei cittadini. In linea di principio, dunque, mentre il cittadino Trump aveva il diritto di bloccare gli utenti che commentavano questioni estranee al ruolo istituzionale, il presidente Trump non poteva rifiutare il confronto con chi lo criticava.

Potere e responsabilità delle digital platform

La sentenza della Corte suprema che ha chiuso la vicenda è accompagnata anche da una motivazione aggiuntiva —una concurring opinion— redatta dal giudice Thomas che ha colto l’occasione per analizzare in modo più ampio i ruoli e le responsabilità delle piattaforme digitali.

La tesi del magistrato è che per limitare l’enorme potere acquisito dalle piattaforme digitali, queste siano equiparate ai common carrier cioè a quei soggetti (pubblici e privati) che svolgono attività di interesse collettivo e che, quindi, non possono discriminare i singoli individui. Nel diritto italiano si parla di “obbligo legale di contrarre” in nome del quale, per esempio, una utility non può rifiutare la fornitura di elettricità, un’azienda di trasporti non può negare l’accesso a un passeggero e un operatore di telecomunicazioni deve attivare una linea voce o dati se il contraente offre di pagare il costo del servizio.

Considerare le piattaforme come se fossero degli operatori telefonici implicherebbe dunque riconoscere la loro funzione di “pubblico servizio”. Ciò implicherebbe limitare la discrezionalità nell’applicazione dei famigerati terms&conditions, e dunque una ridotta possibilità di “silenziare” gli utenti.

“Per molti versi — scrive Thomas— le piattaforme digitali disponibili al pubblico sono simili ai tradizionali common carrier. Sebbene le loro reti siano digitali piuttosto che fisiche, in sostanza le piattaforme sono reti di comunicazione che “trasportano” informazioni da un utente all’altro. Una compagnia telefonica tradizionale ha installato cavi fisici per creare una rete che connette le persone. Le piattaforme digitali gestiscono un’infrastruttura di informazioni che può essere controllata più o meno allo stesso modo”.

Common carrier e network neutrality

Per quanto, di primo acchitto, affascinante, la proposta del giudice statunitense è basata su un equivoco tecnologico che ne condiziona negativamente la fattibilità giuridica. I carrier tradizionali —quelli che trasportano beni ma anche energia e segnali elettrici— sono neutri rispetto agli oggetti che spostano da un punto all’altro. Quando un operatore di telecomunicazioni fa interagire due persone non entra nel merito del contenuto dei messaggi scambiati: gli utenti possono organizzarsi per andare a cena o a compiere una rapina, ma l’operatore non si intromette. Le norme europee (in particolare, la direttiva 31/00/CE) vietano agli operatori di telecomunicazioni di attivare una sorveglianza preventiva e le costituzioni nazionali tutelano la segretezza delle comunicazioni. Fino a quando, dunque, gli operatori di telecomunicazioni mantengono la propria neutralità rispetto al comportamento degli utenti, essi non sono responsabili del modo in cui viene utilizzato il servizio.

La non-neutrality delle piattaforme

Contrariamente alla proposta del giudice Thomas la tutela dei diritti costituzionali nella comunicazione elettronica interattiva richiederebbe invece di differenziare nettamente, a livello normativo, i fornitori di servizi “passivi” (accesso, trasporto, hosting, caching, messaging) senz’altro assimilabili alla figura del common carrier da quelli che, invece, rivendicando il diritto di decidere in autonomia come devono comportarsi gli utenti, non possono poi invocare a propria difesa la “neutralità” del servizio.

Le piattaforme di social networking non sono neutre, anzi. È noto che offrono agli utenti dei contenuti preselezionati in base a profilazioni complesse e che decidono sospensioni e chiusure definitive di account o rimozioni mirate di specifici contenuti, senza un’apparente coerenza. Di conseguenza, le “piattaforme” non rientrano nella categoria di common carrier. Sono e rimangono soggetti privati che non erogano servizi di interesse pubblico e che possono regolare i rapporti con i propri clienti in modo del tutto autonomo.

Come limitare il potere delle piattaforme?

Questo non significa che le piattaforme sono libere di compiere scelte che incidono su diritti fondamentali della persona. Nessun potere, in Paese democratico, può essere esercitato in modo assoluto. L’applicazione di clausole contrattuali, in altri termini, non può essere basata sull’arbitrio di una parte (specie se è quella più forte) ma deve sempre rispettare il dovere di buona fede (che in Italia è un obbligo giuridico fissato dal Codice civile).

Non c’è bisogno, dunque, di attribuire alla piattaforme digitali il ruolo di common carrier o di equipararle a opeatori di telecomunicazioni e internet provider per ottenere la tutela dei diritti fondamentali. Anzi, è vero il contrario: quanto più le piattaforme operano sulla base di scelte autonome, tanto più possono essere chiamate a rispondere delle proprie decisioni.

Il tema diventa, allora, quello della possibilità effettiva per i cittadini di contestare le decisioni che le piattaforme assumono sulla rimozione di contenuti o sulla chiusura di un account. E qui emerge la vera criticità: tempi e costi delle azioni giudiziare impediscono alla maggioranza degli utenti di far valere i propri diritti davanti a un giudice. Dall’altro lato, i “tribunali privati” istituiti dalle piattaforme digitali non consentono una reale verifica indipendente del modo in cui le piattaforme stesse hanno esercitato i propri poteri.

Da una prospettiva europea, una soluzione richiederebbe (come dovrebbe fare il Digital service act europeo) che per erogare servizi nell’Unione europea, le piattaforme digitali abbiano un responsabile obbligatoriamente basato in un Paese membro. Sarebbe inoltre necessario stabilire procedure rapide per applicare alle piattaforme digitale le decisioni assunte dalle autorità giudiziarie e amministrative. Infine, ma forse prima di tutto, sarebbe indispensabile distinguere chiaramente le piattaforme digitali dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica “passivi”.

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