La querelle sulla privacy di WhatsApp e gli effetti negativi di un certo “modello di business”

L’annuncio della nuova privacy policy – che condivide dati con Facebook – ha fatto scattare l’allarme, con le solite reazioni di pancia che generalmente poi si traducono in poca cosa. Ma deve per forza andare così? di Andrea Monti – Originariamente pubblicato da Infosec.News

Facebook cambia le proprie strategie di gestione dei dati e decide di utilizzare anche quelli generati da WhatsApp. Il “popolo della rete” si inalbera. Tanti minacciano di passare a Telegram o a Signal. Qualcuno lo fa veramente. Poi tutto torna come prima.

Non è la prima volta che gli “allarmi” su questo o quel diritto fondamentale provocano reazioni di pancia che si traducono, fattualmente, in poca cosa. E ancora una volta, come dimostrano i tanti casi di sottrazione di dati da questa o quella multinazionale, nessuno si scandalizza più di tanto.

Tanto, pensano un po’ tutti, va così. Ma deve per forza “andare così”?

Tantissime persone non hanno bisogno di “custodire i dati nella nuvola”. Basta un buon NAS e, nei casi di professionisti e imprese, poco più. Ha veramente senso affidare la propria vita a un social network per avere (nemmeno) i “quindici minuti di celebrità” scanditi da qualche like, magari “di ritorno”,  avendo a propria volta lasciato un segno sul profilo di uno sconosciuto?

Le aziende hanno veramente bisogno di consentire a un’unica società di gestire dall’esterno i propri computer, pardon, “endpoint”? E, tutti, dobbiamo per forza “abbonarci” e “creare un account” per usare un software o un servizio, uno smartphone o un computer?

Il fattore comune di tutti questi eventi è la scelta commerciale delle multinazionali IT e – a cascata, dell’indotto – di imporre un modello di business basato sul controllo centralizzato degli utenti.

Cominciarono qualche decennio fa le multinazionali del software, imponendo l’attivazione remota di sistemi operativi e applicazioni, con la scusa di “combattere la pirateria”. Poi arrivarono i produttori di hardware, che imponevano la “registrazione” per poter accedere alla garanzia e agli aggiornamenti del firmware. Di seguito, fu la volta del mondo dell’intrattenimento e dei videogiochi. E poi di nuovo i fabbricanti di smartphone e hardware vario che, questa volta, usano “l’account” come condizione addirittura per utilizzare il prodotto. 

Un destino analogo per casa e automobile è dietro l’angolo.

Non so se la metafora della rana bollita sia fattualmente corretta, ma il concetto lo è sicuramente. Nel corso degli anni siamo stati progressivamente abituati (con il bastone più che con la carota) ad accettare che l’uso delle tecnologie dell’informazione dovesse richiedere un modello commerciale che ci priva del controllo e del diritto di usare in autonomia questi strumenti in nome della “connessione totale” di macchine e di persone. 

Ma come diceva Corrado Guzzanti a proposito della possibilità di parlare via internet con un aborigeno: Aborigeno, ma io e te che cazzo se dovemo da di’? 

In altri termini, se riprendessimo una dimensione meno globalizzata di vita e lavoro ci accorgeremmo che tanto di quello che ci viene presentato come “evoluzione” è, in realtà, soltanto strategia commerciale. 

Un modo per venderci prodotti e modelli di lavoro dei quali non abbiamo realmente bisogno. Dunque, più che su Facebook interagiremmo tramite la mail con chi è veramente interessato alle cose che ci interessano, affideremmo le nostre idee al nostro sito e, volendo parlare con qualcuno, potremmo usare uno dei tanti sistemi di videoconferenza che non richiedono “l’account”. 

Facile a dirsi per molti, ma non per tutti perché ancora oggi mettere in piedi questi sistemi non è banalissimo. 

Le “nuove tecnologie” dovrebbero essere chiamate così non perché sono avanzate, ma perché sono ad uno stadio evolutivo ancora talmente grezzo da richiedere continuamente l’intervento di un tecnico per essere utilizzate. Questo gratifica l’ego di tanti geek, ma è un danno per tutto il resto del mondo, che è costretto ancora ad usare strumenti analoghi alla caldaia a vapore, ma presentati come motori a fusione fredda.

E non stupiamoci, allora, se come scriveva Alan Cooper The Inmates Are Running The Asylum.

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