Software pirata, è ricettazione?

di Andrea Monti

L’attuale tendenza dell’Autorità Giudiziaria è quella di contestare insieme alla violazione delle norme su diritto d’autore anche il reato di ricettazione per chi acquisisce programmi protetti da copyright duplicati abusivamente. Tale scelta è forse discutibile, per una serie di motivi che espongo sinteticamente.

Come è noto l’art.171 bis l.633/41 punisce: “Chiunque abusivamente duplica a fini di lucro, programmi per elaboratore, o, ai medesimi fini e sapendo o avendo motivo di sapere che si tratta di copie non autorizzate, importa, distribuisce, vende, detiene a scopo commerciale, o concede in locazione i medesimi programmi…”. Con tale norma, inserita nel previgente corpus normativo a seguito dell’emanazione della Direttiva CEE 250/91, viene definitivamente risolto il problema della qualificazione giuridica del software.
Secondo indirizzi oramai consolidati negli Stati Uniti e nelle pronunce degli altri Paesi Europei esso viene assimilato alle opere d’ingegno e – in particolare – a quelle letterarie.
Coerentemente quindi l’oggetto della norma è stato individuato – sic et simpliciter – nel programma per elaboratore, in qualsiasi forma espresso svalutando in conseguenza la rilevanza dei supporti che lo veicolano.

Il riflesso concreto di questa scelta, peraltro anticipata da una prassi contrattuale generalizzata, sta nel fatto che ad essere trasferita – e quindi TUTELATA – non è la titolarità del programma ma solo la licenza di utilizzarlo. Si capisce dunque perchè il legislatore ha concepito una norma come l’art.171 bis l.633/41 che solo apparentemente sembrerebbe essere un duplicato inutile del reato di ricettazione ex art.648 c. p.
In entrambi c’è la provenienza illecita dell’oggetto del reato (denaro o cose nella ricettazione; programmi nell’art.171 bis l.633/41); ma già sotto il profilo della tipicità emergono le prime differenze.
Se l'”acquistare”, “ricevere” e “occultare” dell’art. 648 c.p. possono essere condotte in qualche modo contigue al “duplicare”, “importare”, “distribuire”, “vendere” e “detenere” indicate dall’art.171 bis l.633/41 ben diverso è l’oggetto del reato. Nel caso della ricettazione infatti il comportamento illecito dell’agente deve attingere “…denaro o cose provenienti da qualsiasi delitto…” mentre è di tutta evidenza che un programma informatico non può essere in alcun modo considerato denaro nè tanto meno res.

Nè vale obiettare l’esistenza di un legame fra programma e supporto fisico, estendendo, così, analogicamente il ragionamento di quella giurisprudenza che ha riconosciuto la configurabilità della ricettazione di beni immateriali quando riferibili ad una “cosa”. Tali esempi, infatti, riguardano il caso di diritti di credito che, “incorporati” in un documento rappresentativo o dichiarativo della loro esistenza, diventano da questi indivisibili: e.g. l’assegno.
La copia del software dà, invece, origine ad una situazione totalmente diversa. L’abusività della riproduzione stà infatti nel creare una situazione di fatto che consente a terzi l’utilizzo abusivo di un’opera d’ingegno; cioè nel ledere il diritto d’autore senza che il titolare dello stesso ne abbia il corrispettivo economico. Tale situazione sembra essere del tutto incompatibile con la previsione dell’art. 648 c.p..

Ecco spiegata l’apparente inutilità dell’art.171bis l.633/41: esso ha la funzione di punire quei fatti che, aventi ad oggetto il diritto di utilizzo del software, non possiedono i requisiti per configurare la ricettazione.

Il dr. Andrea Monti è membro del Comitato di garanzia di ALCEI e responsabile del settore Studi giuridici dell’Associazione.

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