Il governo rende pubblici gli atti del CTS COVID-19. Dovere, obbligo o contenimento dei danni?

IIl TAR Lazio impone al governo di rendere pubblici i verbali del comitato tecnico scientifico COVID-19, ma il governo impugna la sentenza, lascia intendere che la trasparenza non è un “dovere” ma un “obbligo”, e infine cede,  evitando la decisione del Consiglio di Stato sul valore dei DPCM di Andrea Monti – originariamente pubblicato da Formiche.net

Antefatto

Una sentenza del TAR Lazio e il decreto del Consiglio di Stato che ne sospende l’immediata efficacia ) intervengono “a gamba tesa” nelle polemiche sul modo in cui il governo ha utilizzato i DPCM. Dopo una prima resistenza, motivata da “questioni di ordine pubblico” il governo cede e rende pubblici i documenti , evitando così che la massima autorità della giustizia amministrativa entri nel merito della scottante questione sull’uso dei DPCM per gestire l’emergenza.

I DPCM sono il vero terreno di scontro

Entrambi i giudici amministrativi avevano rilevato, infatti, un utilizzo “atipico”dei DPCM. La presidenza del consiglio, dice in sintesi il TAR Lazio, ha creato un monstrum (nell’accezione classica del termine) la cui natura giuridica è ambigua: ha la forma di un atto di coordinamento e indirizzo politico, ma la sostanza di un’ordinanza urgente (ma non contigibile, dice il giudice amministrativo) e come tale non è coperta da segreto. Vale la pena, sul punto, riportare per intero il ragionamento del TAR Lazio:

Piuttosto, quanto ai DDPCM in argomento, va evidenziata la peculiare atipicita?, che si connota da un lato per caratteristiche ben piu? assonanti con le ordinanze contingibili e urgenti … in quanto si tratta di provvedimenti adottati sulla base di presupposti assolutamente eccezionali e temporalmente limitati che, a differenza degli atti amministrativi generali tout court, consentono di derogare all’ordinamento giuridico anche imponendo, come nel caso in esame, obblighi di fare e di non fare (caratteristica questa che differenzia nettamente dagli atti amministrativi generali le ordinanze contingibili e urgenti, la cui giustificazione si rinviene nell’esigenza di apprestare alla pubblica utilita? adeguati strumenti per fronteggiare il verificarsi di situazioni caratterizzate da eccezionale urgenza, tali da non consentire l’utile e tempestivo ricorso alle alternative ordinarie offerte dall’ordinamento), ma dalle quali si differenziano per la carenza del presupposto della “contingibilita?”, atteso che i DDPCM in questione riproducono contenuti gia? dettagliatamente evidenziati nei DD.LL. attributivi del potere presupposti.

Dello stesso parere il Consiglio di Stato, secondo il quale

la normativa, e gli atti – compresi quelli endoprocedimentali – adottati durante il periodo della emergenza COVID-19, sono caratterizzati da una assoluta eccezionalita? e, auspicabilmente, unicita?, nel panorama ordinamentale italiano, tanto da ritenersi impossibile – come la stessa appellante riconosce – applicarvi definizioni e regole specifiche caratterizzanti le categorie tradizionali quali “atti amministrativi generali” ovvero “ordinanze contingibili e urgenti”, pur avendo, di tali categorie, gli uni e gli altri alcuni elementi ma non tutti e non organicamente rinvenibili nelle appunto citate categorie tradizionali.

Il problema dell’uso dei DPCM

Questi passaggi tratti dalle due decisioni pongono un problema di grande rilevanza: se la trasformazione sostanziale dei DPCM in simil-ordinanze fosse effettivamente l’unico modo di gestire le urgenze derivanti dalla pandemia oppure se, al contrario, fossero stati sufficienti i “semplici” poteri di ordinanza dei singoli ministeri, “semplicemente” coordinati, come vuole la legge, dalla presidenza del consiglio.

Nel primo caso, saremmo di fronte a una clamorosa lacuna del sistema normativo dell’emergenza, colmata con atti emanati sulla base del potere di fatto, piuttosto che su quello di diritto, e dunque su un’azione che si inquadrerebbe, con qualche problema di democrazia, nella teoria politica sul potere formulata da Schmitt. Nel secondo caso saremmo di fronte a un comportamento quantomeno “problematico” da parte della presidenza del consiglio che avrebbe ignorato le attribuzioni dei singoli ministeri per assumere un potere autonomo e sovraordinato a quello degli altri dicasteri. Come è facile immaginare, la soluzione a questo dilemma non è e non può essere soltanto tecnico-giuridica, ma ha delle evidenti implicazioni politiche e istituzionali.

La decisione del Consiglio di Stato infatti, pur se relativa al tema (apparentemente) collaterale dell’esistenza o meno del diritto dei cittadini a conoscere gli atti del CTS Covid-19, potrebbe avere degli effetti che vanno ben oltre l’argomento della controversia giudiziaria perchè richiede di entrare nel merito rapporto fra stato di emergenza e stato di eccezione di cui già si era parlato in tempi non sospetti sulle pagine di Formiche.net.

La problematica contromossa del governo

La soluzione a questo problema, tuttavia, non arriverà mai perchè l’adempimento “spontaneo” da parte della presidenza del consiglio fa “cessare la materia del contendere” e dunque preclude la possibilità che il massimo grado della giustizia amministrativa su pronunci sul ruolo e sul valore dei DPCM. Evidentemente, infatti, piuttosto che rischiare una sentenza che sconfessa l’interpretazione della presidenza del consiglio sul modo di usare i DPCM si è preferito cedere sulla desecretazione.  E’ stato sacrificato un pedone per evitare di subire uno scacco.

Uso e abuso del “segreto”

A prescindere dalla soluzione tattica della vicenda, rimane aperto il tema del ruolo e dell’uso del segreto nell’attività politica e del limite della sindacabilità giuridica dell’esercizio del potere di secretazione.

A partire dal segreto di Stato, l’ordinamento giuridico stabilisce una graduazione di segretezza degli atti dell’amministrazione che, all’altro estremo, arriva fino alla trasparenza imposta dalla Legge 241/90 e dall’accesso civico generalizzato. Dunque, il dibattito fra il potere dello Stato di nascondere e quello dei cittadini di conoscere si consuma nella tensione dialettica fra questi due estremi.

Per mantere segreti i verbali del CTS (è sempre il TAR Lazio a dirlo) il governo ha opposto

solo motivi “formali” attinenti alla qualificazione degli stessi come “atti amministrativi generali”, ma non ha opposto ragioni sostanziali attinenti ad esigenze oggettive di segretezza o comunque di riservatezza degli stessi al fine di tutelare differenti e prevalenti interessi pubblici o privati.

In altri termini: i verbali del CTS devono rimanere segreti per via della loro natura giuridica e non per il loro contenuto.

Nell’atto di impugnazione, tuttavia, il governo inserisce due argomenti nuovi a sostegno della “secretazione” degli atti del CTS: quello del danno concreto all’ordine e alla sicurezza pubblica e quello dell’opportunità, quantomeno, di un rinvio della messa a disposizione dei verbali ad una data successiva alla scadenza dello stato di emergenza .

Se, tuttavia, i verbali del CTS Covid-19 sono così pericolosi per l’ordine pubblico e causa di un “danno concreto”, sarebbe stato lecito aspettarsi dal governo una resistenza a oltranza per ritardare l’ostensione degli atti fino all’ultimo. 

Questo, però, non è accaduto e, dunque, è lecito chiedersi il perchè si è passati dal considerare questi atti dapprima come assolutamente non pubblicabili per poi cambiare idea nel giro di qualche giorno.

In termini più generali, la questione diventa individuare un limite all’imposizione del segreto come forma di nascondimento dei fatti del potere dallo sguardo dei cittadini.

Il ricorso al segreto da parte del potere non è certo di oggi, come rileva acutamente Mariavittoria Catanzariti nel suo fondametnale saggio “Segreto e potere. I limiti della democrazia”, ed ha una sua logica basata sulla realpolitik che può disturbare il senso democratico ma che è comprensibile nel “grande schema” delle cose. Meno comprensibile, invece, è la “degradazione” da parte del governo del ruolo del segreto da strumento di tutela degli interessi dello Stato a “salvagente processuale”, nella forma di un’eccezione (per di più, probabilmente, tardiva) basata addirittura su generiche “questioni di opportunità”.

Lo stato di eccezione: il demone che nessuno vuole evocare

Ora, se colleghiamo il tema dell’espansione di fatto dei poteri della presidenza del consiglio nell’uso dei DPCM rilevata dai giudici amministrativi alla pretesa (nel senso giuridico del termine) del governo di sottrarre al dibattito pubblico gli elementi tecnici delle sue decisioni per questioni di ordine pubblico e opportunità è abbastanza difficile non tornare sulla confusione fra “stato di emergenza” e “stato di eccezione”, il demone la cui presenza è avvertita da tutti, ma che nessuno vuole evocare.

Ad nauseam va ricordato che lo stato di emergenza alla base della gestione normativa della pandemia è previsto dal Codice della protezione civile e abilita a compiere le azioni tecnicamente necessarie ad affrontare le criticità immediate e non può essere il presupposto giuridico per la sospensione dei diritti costituzionali. E’, dunque, sbagliato usare lo stato di emergenza di protezione civile come base della pretesa (in senso giuridico) a un “diritto al segreto” in capo al governo motivato da uno stato (non dichiarato dal Ministro dell’interno) di pericolo pubblico, ai sensi dell’articolo 214 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.

Conclusioni: lunga vita al rule of law

La vicenda dei verbali del CTS Covid-19, dunque, assume un valore paradigmatico nel rapporto fra politica e diritto o, meglio, fra potere e rule of law. E dimostra l’importanza del ruolo di controllore dei controllori rivestito dal potere giudiziario che, ancora una volta, ha tenuto a bada il Leviatano.

 

 

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