Salute e difesa. Così la Cina si vaccina (per non finire come l’Impero romano)

La scelta cinese di sperimentare il vaccino sulle forze armate potrebbe non essere motivata solo dalla necessità di avere un “gruppo di controllo” più facilmente osservabile. Il commento di Andrea Monti, professore incaricato di Diritto dell’Ordine e della sicurezza pubblica, Università di Chieti-Pescara– Originariamente pubblicato da Formiche.net

La notizia di queste ore è che la Cina ha deciso di sperimentare l’Ad5-nCoV, un possibile vaccino per il Coronavirus, sulle proprie forze armate. Da quanto riporta il quotidiano britannico The Telegraph la scelta dipenderebbe dal fatto che i militari “offrono un gruppo di controllo medico più compatto di quanto faccia il pubblico”.

Benché non sia escluso l’utilizzo su scala più estesa, e dunque anche ai civili e non solo cinesi (la sperimentazione è stata autorizzata anche in Canada) è utile fare qualche riflessione sul significato della scelta di sviluppare e sperimentare il vaccino in ambito militare.

Quando, nel 160 DC, l’Impero romano venne colpito dalla peste antonina uno degli effetti più pesanti fu la riduzione del numero di legionari. Man mano che i miles cadevano sotto i colpi del virus, infatti, era sempre più difficile trovare nuovi soggetti da arruolare tanto che l’Impero fu costretto a ricorrere alle tribù barbare, con ciò – sul breve periodo – ristabilendo almeno formalmente la superiorità militare ma – sul medio-lungo – segnando l’inizio della propria fine.

Vista da questa prospettiva, dunque, la scelta cinese assume una fisionomia del tutto diversa, perché suggerisce un uso strategico del vaccino.
Le poche notizie filtrate sulla diffusione del coronavirus nelle Forze armate occidentali (come per esempio il contagio sulla portaerei francese Charles de Gaulle – o sull’americana Nimitz) lasciano ragionevolmente pensare che i numeri siano ben diversi e molto più consistenti e che, dunque, ci possa essere un problema di ridotta capacità di azione e reazione. Se, dunque, il coronavirus è in grado di ridurre l’efficienza degli apparati militari, è chiaro che recuperarla – o non perderla – è una priorità che supera quella del trovare un vaccino da mettere a disposizione della popolazione civile (anche non cinese).

A maggior ragione se si considera che il “numero” – cioè la quantità di militari – è uno degli elementi di forza dell’apparato offensivo cinese e dunque può trasformarsi in una debolezza se non fosse possibile bloccare la circolazione del coronavirus. A rinforzare la percezione del ruolo strategico rivestito dall’Ad5-nCoV sta il fatto che il rilascio del vaccino per uso civile deve essere, appunto, autorizzato dalle autorità militari, le quali – come tutte le loro omologhe in giro per il mondo – assumeranno decisioni basandosi su necessità diverse da quelle della “mera” tutela della salute pubblica. Certo, anche altri Paesi svilupperanno il vaccino e dunque potranno riequilibrare i piatti della bilancia. Ma anche se la Cold War II non è combattuta (direttamente) in trincea, è pur sempre soggetta all’interazione fra debolezza e fattore tempo. Questo significa che la durata di una condizione di vulnerabilità deve essere ridotta – o eliminata – il più in fretta possibile e che tornare alla normale capacità operativa prima del “nemico” è un modo per conquistare lo high-ground – il vantaggio strategico/tattico.

Per quanto importante sul breve periodo la questione Ad5-nCoV, il tema del controllo militare o dell’uso strategico delle tecnologie della (bio)medicina è straordinariamente più esteso e fondamentale nella difficile ricerca di un equilibrio dell’ordine mondiale. Basta pensare alle controversie sull’utilizzo di tecniche di gene-editing come Crispr-Cas9 per capire come il controllo sulle scienze della vita diventa un elemento importante dell’arsenale di un Paese.

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