Il caso Silvia Romano e l’ipocrisia sulla sicurezza privata

Una delle polemiche scoppiate sul caso Silvia Romano è l’assenza di formazione degli operanti e l’inesistenza di un’apparato di protezione. È indispensabile la riforma della sicurezza privata
di Andrea Monti – Infosec.News del 20 maggio 2020

La conclusione della vicenda di Silvia Romano ripropone i temi delle condizioni di (in)sicurezza nelle quali si trovano aziende e ONG che operano in teatri a rischio e della necessità non rinviabile di garantire loro una ragionevole incolumità tramite un’adeguata formazione e il ricorso ad operatori di sicurezza privata.

Che il “datore di lavoro” sia un’azienda o una ONG, quando le condizioni operative implicano un rischio connesso ad aggressioni, rapimenti e violenze questi elementi diventano parte necessaria dell’addestramento del personale. 

Uso il termine “addestramento” non a caso, perchè in questo settore non bastano corsi una tantum ma è necessaria una pratica continua e finalizzata. Solo così un volontario di un’ONG o un dipendente di un’impresa che opera in zone a rischio può essere in grado di riconoscere anticipatamente situazioni di pericolo e sapere come comportarsi anche e soprattutto in condizioni di stress.

Le ONG più strutturate hanno programmi di formazione di questo tipo, ma non è sempre così in realtà meno consapevoli e come si è visto, le conseguenze di questa mancata attenzione possono essere tragiche. 

Dato, però, che da sola questa formazione non basta, sarebbe necessario anche dotarsi di una qualche forma di sicurezza privata per chi opera in settori ad alto rischio dove le forze dell’ordine o le forze armate non possono o non devono operare.

Invece di rivolgersi a “fixer” locali, “consulenti” o di affidarsi alle discutibili “garanzie istituzionali” messe a disposizione da questo o quel governo “democratico” sarebbe preferibile potersi rivolgere a professionisti della sicurezza adeguatamente formati, addestrati e controllati. Ma questa scelta richiederebbe il superamento di diversi pregiudizi culturali sia da parte del settore delle ONG, sia da parte della politica.

Il rifiuto ideologico del ricorso alla forza anche solo in funzione difensiva che caratterizza alcune ONG si scontra con la realtà della violenza etnica e politica di molti scenari, nei quali anche gli accordi con in poteri locali non sempre garantiscono uno svolgimento (relativamente) tranquillo delle attività. 

È vero, ONG più strutturate riescono, grazie all’autorevolezza guadagnata sul campo, ad ottenere una protezione efficace senza bisogno di ricorrere a scorte o a servizi di protezione paramilitare. Ma dare la possibilità a chi non ha questa “tutela ambientale” di usare servizi di sicurezza professionali e rigorosamente controllati  non vuol dire militarizzare la cooperazione, ma renderla possibile  cercando di garantire l’incolumità di chi la offre e di chi la riceve.

Sul versante istituzionale sarebbe invece necessario il superamento definitivo della diffidenza verso il concetto di sicurezza privata, regolamentando in modo chiaro anche in Italia la possibilità di esercitare a tutto campo l’attività di Private Security Service Provider (PSSP)

Il processo è già silenziosamente in atto da tempo, con la trasformazione del ruolo delle guardie particolari giurate e degli istituti di vigilanza da “semplici” guardiani, armati per sola difesa personale, a soggetti integrati nel sistema di pubblica sicurezza tramite l’espediente verbale della “sicurezza sussidiaria” introdotto dalla Legge 155/05 e attuato dal Decreto del Ministro dell’interno n. 154/09. 

Di fatto – e di diritto – dunque, è già possibile per un istituto di vigilanza fornire servizi di sicurezza attiva reclutando e mettendo a disposizione personale da impiegare nei controlli di sicurezza negli aereoporti, nelle stazioni e nel trasporto pubblico e – come previsto dal Decreto del Ministro dell’interno n. 139/2019 –  in funzione di contrasto alla pirateria marittima al posto dei militari messi a disposizione dal governo agli armatori.

Nonostante le ambiguità che pure questo decreto ministeriale non risolve, la strada verso l’attribuzione a soggetti privati di funzioni di sicurezza passiva in scenari a rischio è aperta e non ci vorrebbe molto – se non, appunto, l’abbandono di un pregiudizio ideologico – a percorrerla interamente.

È ora di uscire, infatti, dall’ipocrisia per la quale fuori dall’Italia si usano senza problemi servizi di Private Military Company straniere ma “senza che si sappia in giro”. Regolamentando il settore e formando sul serio degli operatori privati si aprirebbe un mercato che crea posti di lavoro e che, in caso di bisogno, contribuirebbe anche alla gestione delle emergenze di sicurezza.

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