Linee guida, fonti del diritto e (ir)responsabilità

Il sistema delle fonti del diritto e quello della responsabilità sono stati scardinati dall’emergenza COVID-19. Un altro passo verso l’accentramento del potere nelle mani dell’esecutivo e verso la confessione di fallimento del modo “antico” di intendere la legge
di Andrea Monti – professore incaricato di diritto dell’ordine e della sicurezza pubblica – università di Chieti-Pescara – Formiche.net del 19 maggio 2020

Protocolli a responsabilità illimitata

Linee guida e protocolli sono stati ampiamente utilizzati durante la fase più grave dell’emergenza e ora sono alla base del riavvio di tutte le attività. Ma linee guida e protocolli non hanno alcun valore giuridico: seguirli anche scrupolosamente, infatti, non esclude la responsabilità individuale per non avere fatto quel “di più” o quel “qualcosa di diverso” che nel caso concreto sarebbe stato necessario.

Questo principio è il cardine della “colpa medica” e, in materia, è orientamento costante della Cassazione (vedi da ultimo la sentenza 20 marzo 2018, n. 15749 della terza sezione civile) ed è certamente applicabile anche alle indicazioni fornite al mondo dell’impresa, dei servizi e dello sport.  Allo stesso modo, non hanno alcun valore le “FAQ” governative e le tante – e contraddittorie – interpretazioni dei vari provvedimenti rilasciate da vari esponenti istituzionali e della pubblica amministrazione.

L’impatto pratico di questa scelta politica è il trasferimento del rischio derivante dalla scelta di come garantire la sicurezza COVID-19 sulle spalle di soggetti – come le decine di migliaia di associazioni sportive dilettantistiche (ASD) – che non hanno titolo per assumersi questa responsabilità e che, realisticamente, dovranno valutare di “chiudere”.

La  normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro già impone a un’azienda l’obbligo di garantire la sicurezza dei propri dipendenti e dei terzi anche dal contagio COVID-19: il responsabile sicurezza e prevenzione deve emanare delle prescrizioni specifiche, in particolare se le linee guida governative sono carenti o confuse. Ma un’ASD non è un’azienda, i suoi soci svolgono attività su base volontaria e spesso in impianti di proprietà comunale. E’ escluso che possano essere istruttori ed allenatori a dover eseguire “pulizie” e “sanificazioni”: queste sono, infatti, attività a rischio biologico che vanno eseguite e certificate da soggetti competenti che utilizzano strumenti  ad hoc  e non da volontari. Non resta che affidarsi ad aziende specializzate, che dovrebbero quindi diventare una presenza permanente nell’impianto sportivo e i cui costi – tema “caldo” – dovrebbero essere a carico dei proprietari degli impianti, cioè degli enti locali (che a loro volta hanno poca voglia di accollarsi costi e responsabilità).  Ma anche se le ASD – o meglio, i suoi dirigenti – riuscissero a sopportare i costi esorbitanti per garantire la sicurezza della pratica sportiva, rimarrebbero comunque esposti al rischio di cause civili, sanzioni amministrative e, nel peggiore dei casi, penali.

E’ vero come da più parti si sente dire che non sarebbe semplice dimostrare di essere stati contagiati dal Coronavirus proprio in quella palestra o in quel palazzetto comunale. Questo, peraltro, non impedirebbe l’esecuzione di controlli da parte delle autorità  e l’avvio di procedimenti di durata non prevedibile.

E’ evidente che in uno scenario del genere la propensione a interrompere l’attività è estremamente elevata.

Invasioni di campo

La scelta politica del governo di ricorrere a indicazioni di sicurezza prive di valore esimente si traduce, quindi, in un potenziale danno per il Paese di un’entità non quantificabile in termini diretti (riduzione del ruolo dell’Italia nel panorama sportivo internazionale) e indiretti (contrazione del fatturato delle varie imprese – non ultime quelle del comparto turismo) che “vivono di sport”.

Oltre a questo impatto immediato sul sistema paese, il ricorso alla bizzarra tecnica di normazione basata su FAQ e “protocolli” significa che l’esecutivo, dopo avere eroso spazi di competenza parlamentare con il discutibile uso dei DPCM, “invade il campo” anche del potere giudiziario. Spetta, infatti, alla magistratura stabilre se una norma sia stata rispettata o meno – o come deva essere rispettata – e non al governo che in questo modo si è assunto il compito impossibile di decidere sui singoli comportamenti e le innumerevoli “variazioni sul tema” di ciascuno.

Questo è un punto centrale nella dialettica fra i poteri dello Stato: un conto è regolare, in modo generale ed astratto, un comportamento umano (compito del Parlamento), un altro conto è decidere, caso per caso, quello che si può fare o meno (potere della magistratura). Non spetta dunque al governo stabilire se il fatto che  io sia uscito con le sole scarpe da running sia incompatibile con lo svolgimento di attività motoria o cosa voglia dire “congiunto”.

Conclusioni

La sintesi del “dossier linee guida e protocolli” è abbastanza chiara: da un lato c’è la scelta politica del trasferimento del rischio e della responsabilità dalle istituzioni ai soggetti privati, inclusi quelli più deboli senza alcun meccanismo di protezione. Dall’altro c’è l’erosione, colpevolmente tollerata dalle altre parti interessate, dei confini che separano le attribuzioni dei poteri dello Stato.

E’ la formalizzazione del “diritto del caso singolo”, molto più simile all’arbitrio del monarca assoluto che all’epicheia aristotelica – la possibilità di disapplicare la legge al caso concreto quando quella fosse eticamente intollerabile.

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