COVID-19: ancora sugli “zelanti della privacy”

Torno ancora una volta sul tema “zelanti dell privacy”e diritti fondamentali per chiarire alcuni concetti che dovrebbero essere chiari ma che, evidentemente, non lo sono ancora abbastanza:

  • “privacy” non significa riservatezza. Il giornalista investigativo, il narcotrafficante e il partner infedele vogliono tutti la riservatezza sulle loro attivitè, ma per ragioni diversissime che nulla hanno a che vedere con “la privacy”. Viceversa, va tutelata la vita privata come fa l’articolo 615bis del Codice penale,
  • “privacy” non è nemmeno tutela della vita privata, che e’ un concetto molto più ampio ampio e si estende (a differenza della nozione comune di privacy) anche ai luoghi pubblici dove si applicano pacificamente i reati di molestie e violenza privata (appunto),
  • “privacy” non è trattamento dei dati personali perchè il trattamento dei dati personali è strumentale alla protezione dei diritti e delle libertà fondamentali. Quindi il GDPR non tutela “la privacy”  ma innanzi tutto il bene fondamentale vita e da li’ a scendere,
  • “privacy” non è nemmeno (come è accaduto con l’ambiente) un nuovo diritto da costituzionalizzare perchè la Carta già prevede norme specifiche a tutela dell’inviolabilità del domicilio, della libertà di pensiero, di quella di circolazione e della segretezza delle comunicazioni che “coprono” gli ambiti che si vogliono testardamente far rientrare all’interno della “privacy”.

Dunque, se per “privacy” vogliamo intendere una scorciatoia per non dover ripetere ogni volta libertàdipensierosegretezzadellecomunicazioniecc.ecc., allora mi può anche andare bene, ma deve essere chiaro che non stiamo parlando di diritto positivo.

Quanto al GDPR, considerato che non protegge la “privacy” ma i diritti fondamentali e dunque il bene vita prima di tutto, la sua interpretazione non può essere diretta a limitare la possibilità di trovare una cura per il COVID-19 come per qualsiasi altra malattia. Questo significa che a decidere se sia necessaria l’identificazione o meno delle persone, se i dati possono essere scambiati o meno fra ricercatori, o se possono essere raccolti lo decide la ricerca e non la legge (o meglio, una sua miope e burocratica interpretazione da parte di miopi e interessati “interpreti”).

A tutti quelli che, anche loro come un disco rotto, continuano a ripetere che “il GDPR non è un freno alla ricerca” e che “si può fare curare il COVID-19 tenendo conto “della privacy”, chiedo di fornire proposte concrete invece di limitarsi ad affermazioni di principio, e chiedo se – in tutta onestà – sarebbero disposti a rimetterci la vita – o quella di un altro essere umano – “in nome della privacy”.

La legge, in una democrazia, è fatta per proteggere l’essere umano e non per celebrare con autocompiacimento narcisistico l’esperienza estetica dell’osservazione di una (peraltro zoppicante)  costruzione giuridica.

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