Emergenza Covid e prevenzione anticrimine: che fine ha fatto Internet?

Lo scorso 10 aprile il Ministro degli interni ha emanato una direttiva ad oggetto “Emergenza  Covid-19.  Monitoraggio  del disagio  sociale  ed  economico e attività  di  prevenzione  e  contrasto  dei  fenomeni  criminosi  e  di  ogni forma di illegalità”.

La direttiva prende formalmente atto di qualcosa che, speriamo, ufficiosamente sia stato oggetto di attenzione istituzionale sin dall’inizio: l’impatto del COVID-19 su ordine e sicurezza pubblica.

Meglio tardi che mai. In tempi non sospetti, e soffocato dai clamori suscitati da terrorismo informativo alimentato da dati inattendibili ma “presi per buoni” scrivevo:

“Dopo gli assalti ai supermercati e ai furgoni che trasportano alimenti, le cronache cominciano a documentare quello che qualsiasi persona con un minimo di esperienza del mondo criminale aveva intuito: l’aumento di reati contro i deboli, a danno di persone rimaste sole in casa o di quelle che, per loro sfortuna, la casa hanno dovuto abbandonarla perchè ricoverati in ospedale” ed evidenziavo come nessuno sembra preoccuparsi, o percepire la gravità dello stato di “sospensione della giustizia” che legittima la commissione di abusi – dal rifiuto di onorare debiti “per colpa del virus” ad azioni più turpi di frode e violenza – proprio perchè chiunque percepisce l’inutilità, in emerenza, di un sistema per il quale il tempo non ha importanza, basta che, un giorno o l’altro, “giustizia sia fatta”. (Qui l’articolo completo).

Ma cosa c’entra tutto questo con l’internet e la prevenzione? Tutto e niente.

Da un lato, infatti, è vero che finalmente la prevenzione criminale è entrata formalmente nell’agenda del Governo; dall’altro, però, avere focalizzato l’attenzione ai soli reati “tradizionali” (o a quelli commessi con modalità non informatiche) trascurando quelli che coinvolgono reti e computer può essere un problema, specie alla luce dei rischi ai quali è esposta la rete italiana e dei quali ancora nulla ci è stato detto.

Il Ministro, parlando ai Prefetti, spiega che

dovrà essere, quindi,  sviluppata un’ampia azione di intelligence sul territorio che valorizzi, in primo luogo, le evidenze di  natura  info-investigativa e  la capacità di  analisi  dei  contesti  e dei  fenomeni criminali a cura delle Forze di polizia territoriali, con l’obiettivo di  assicurare che la ripresa delle attività avvenga secondo imprescindibili coordinate di legalità.

In  questo senso, le  SS.LL. dovranno procedere con particolare cura all’attività informativa preordinata a prevenire le infiltrazioni della criminalità organizzata, attraverso un’attenta ed accurata valutazione di tutti i possibili  indicatori di rischio di condizionamento dei processi decisionali pubblici funzionali all’assegnazione degli appalti.

Intelligence e attività informativa, dunque, come elementi strutturali della prevenzione criminale. Ma se le strutture “tradizionali” possono contare su risorse (mai sufficienti ma comunque) dislocate sul territorio e dotate di conoscenze e competenze immediatamente utilizzabili, è difficile fare “intelligence” e “attività informativa” per prevenire una criminalità che, per sua natura, non è legata a un territorio.

Il problema non è solo la scelta operata sulla struttura della Polizia Postale o di non avere potenziato abbastanza l’allora Gruppo Anticrimine Tecnologico della Guardia di Finanza che – ne ho un ricordo personale e diretto – pur in condizioni logistiche molto eufemisticamente definibili “precarie” è riuscito a cogliere più di un successo.

Ciò che manca è lo sviluppo, fra gli operanti, di una adeguata formazione sugli aspetti tecnologici della criminalità che possa consentire a chi si trova in prima linea di riconoscere segnali che possono evidenziare attività illecita, ma che se non vengono identificati per tali consentiranno la commissione di reati con una sostanziale impunità.

Senza dubbio i classici reati transnazionali come quelli che ricorrono al  phishing sono difficilmente perseguibili – e prevenibili – per l’assenza di un reale supporto da parte delle istituzioni dei Paesi dai quali operano le strutture criminali. E’ anche vero, però, che forme di criminalità locale e localizzata basate su “pacchi digitali”, minacce, estorsioni e ricatti e varia altra fenomenologia deviante possono essere prevenute, appunto, con un’adeguata attività informativa. Garage vuoti (magari affittati da poco) che cominciano ad essere riempiti di oggetti  di provenienza incerta, carte ricaricabili intestate a persone anziane che “fanno traffico”, diffusione in un determinato amibito sociale (per esempio studenti delle scuole medie) di “giochi” pericolosi, organizzazione più o meno occulta, “via social”, di manifestazioni non autorizzate o di vere e proprie azioni di disordine pubblico… la lista potrebbe procedere a lungo, ma credo che il punto sia stato chiarito a sufficienza.

Non esistono “reati virtuali” – perché i loro effetti sono tanto concreti quanto quelli di furti e violenza – ma solo reati che sono più difficili da prevenire, scoprire e reprimere. E che per essere prevenuti, scoperti e repressi richiedono un aggiornamento diffuso e profondo di chi, in prima linea, è l’unico a poter raccogliere quei “segnali” che sono alla base di qualsiasi attività informativa.

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