COVID-19: comportamenti e norme nella società vulnerata

Se venticinque anni fa Manlio Cammarata, occupandosi del rapporto fra legge e tecnologia scriveva della “società vulnerabile”, oggi quella definizione non ha più senso.

L’emergenza COVID-19 dimostra come la nostra società, più che “vulnerabile”, sia stata vulnerata. Vulnerata da una sistematica assenza di pensiero su come integrare in modo efficiente le tecnologie dell’informazione in un ecosistema sociale, politico e culturale.

Così, oggi ci troviamo di fronte a pubbliche amministrazioni che hanno – eufemisticamente – difficoltà ad operare in telelavoro, al comparto della pubblica sicurezza che si affida a “pezzi di carta” – la famigerate “autodichiarazioni” – per contrastare chi non rispetta gli obblighi di isolamento, al servizio sanitario che non è in grado di accedere alle enormi risorse informatiche del mondo della ricerca medica “perchè i laboratori non sono omologati” per fare i test, “piattaforme di ecommerce” che non riescono a tenere il passo con il sovraccarico degli ordini, propro quando ci si aspetterebbe una dimostrazione di straordinaria capacità ed efficienza, università e tribunali che consegnano a tecnologie proprietarie ed extracomunitarie la didattica e l’amministrazione della giustizia. E la lista potrebbe proseguire a lungo.

Con la preveggenza che lo caratterizzava, Giancarlo Livraghi scrisse il primo luglio 1999 un manifesto che venne presentato nel corso del Forum sulla società dell’informazione, organizzato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (e del quale non c’è più traccia sul sito di Palazzo Chigi). Si intitolava “E’ compito delle istituzioni liberarci dalla schiavitù elettronica“, e chiedeva

  1. Che i servizi di pubblica utilità usino programmi informatici e telematici totalmente trasparenti e aperti: cioè di cui sia noto e liberamente modificabile il “codice sorgente”.
  2. Che in nessuna comunicazione con la Pubblica Amministrazione (o con qualsiasi altro servizio di pubblica utilità) i cittadini siano mai costretti a usare programmi non universalmente compatibili; o, nel caso che si tratti di programmi definiti ad hoc, questi siano sempre liberamente e gratuitamente disponibili a tutti.

Due richieste semplici che, se fossero diventate parte dell’agenda politica del tempo, avrebbero aiutato a costruire una società efficiente, moderna ma soprattutto, libera.

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