Lunga vita ai bootleg

Bootleg è un “nome ombrello” sotto il quale trovano riparo maniere di registrare un evento musicale molto diverse fra di loro (anche dal punto di vista giuridico) ma che l’industria discografica accomuna ingiustamente con l’etichetta di “pirateria musicale”.
di Andrea Monti – Audioreview n. 394 – gennaio 2018

Le registrazioni “ufficiali”, siano esse di sessioni in studio o di eventi dal vivo, non esauriscono la varietà della fissazione su supporto durevole delle performance degli artisti. Almeno dagli anni ’60 del secolo scorso, infatti, nei circuiti degli appassionati e anche in quelli commerciali sono sempre circolate delle registrazioni non autorizzate dalle etichette musicali.

Si tratta dei bootleg, registrazioni di varia provenienza e qualità, accomunate dal fatto di non essere state autorizzate dal titolare dei diritti (spessissimo la casa discografica, quasi mai l’artista).

Un tipo di bootleg è quello realizzato accedendo direttamente e di nascosto all’uscita del mixer durante un concerto o una registrazione (con la variante, in questo ultimo caso, della copia della traccia già registrata).

Un altro tipo di bootleg è quello realizzato immettendo nel circuito distributivo delle registrazioni private di un artista, alternate takes o versioni preliminari di un pezzo, anche in questo case trafugate contro la volontà dell’avente diritto.

Profondamente diverso, invece, è il terzo tipo che sarebbe più corretto chiamare audience recording, prodotto dal pubblico che “si porta a casa” l’esecuzione musicale dal vivo, grazie a un proprio registratore.

Per evidenti ragioni, le major del settore, gli organizzatori dei concerti e anche gli artisti, hanno tutto l’interesse a mantenere il controllo su tutto il materiale audio che può avere un qualche valore economico, e dunque sono tutti molto determinati a considerare tout-court illegale qualsiasi forma di registrazione non autorizzata.

In realtà non è (sempre) così perchè la legge sul diritto d’autore contiene delle regole sull’uso libero delle opere creative che – pur non pensate per il caso specifico – devono valere anche per (alcuni fra) i bootleg, e in particolare per la audience recording.

Mentre, infatti, i bootleg propriamente detti, cioè quelli realizzati con registrazioni “rubate” sono certamente illeciti, questo non è necessariamente vero per le audience recording.

Le registrazioni “rubate”, specie se ad essere sottratto è il mix che dovrà essere poi fissato su un CD o – in un concerto dal vivo nel quale tutti gli strumenti passano per il mixer – l’output inviato all’impianto PA sono certamente illegali. Hanno un concreto valore economico e farli circolare in una distribuzione “parallela” è una violazione delle prerogative del titolare dei diritti d’autore. E persino il critico più duro dell’attuale assetto del copyright non può arrivare a giustificare un comportamento del genere.

Viceversa, per quanto ben fatte, le audience recording hanno dei limiti qualitativi che non le possono mettere in concorrenza con le versioni ufficiali di un disco oppure con il bootleg realizzato da un master.

Conservo ancora la registrazione dal vivo di un concerto di Elio e le Storie Tese che feci una vita fa con un registratore vocale Sony. Ogni volta che la ascolto rivivo le emozioni di quella serata, tuttavia dal punto di vista non dico dell’audiofilo (che peraltro non sono) ma almeno da quello dell’ascoltatore evoluto è chiaro che non pagherei nemmeno un centesimo per quei file.

Analogamente, a volte mi capita di usare lo smartphone per riprendere alcuni passaggi di un concerto per “annotarmi” degli spunti da studiare una volta tornato a casa. Ma nonostante siano passati secoli tecnologici dai tempi in cui usavo quel registratore vocale, la qualità della registrazione non è migliorata poi così tanto.

D’altra parte, con la dimensione delle capsule dei microfoni di un telefonino – anche di quelli esterni, come lo Zoom IQ5 o il RØDE i-XY – non si possono fare miracoli. Se non altro perché per avere una registrazione appena decente si dovrebbe essere perfettamente al centro rispetto al palco, senza qualcuno a fianco che urla e ti spinge, e a una certa distanza dall’amplificazione.

Perché, dunque e veniamo al punto, dovrebbe essere illegale – e sanzionato penalmente – autoprodurre una registrazione di qualità non comparabile con quella dello studio di registrazione?

Non c’è una ragione perché le cose stiano in questo modo, tanto che oltre al buon senso, anche la legge sul diritto d’autore può consentire di non ritenere illecite le audience recording. Esse, infatti, rappresentano una “versione degradata” dell’originale e per di più non in grado di fare concorrenza all’originale e dunque non costituiscono un pericolo per gli incassi del titolare dei diritti.

La norma di riferimento è l’articolo 70 comma 1bis della Legge sul diritto d’autore che, per scopo didattico o scientifico, autorizza addirittura la libera pubblicazione in rete di “immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate” purchè senza scopo di lucro.

Se, dunque, posso liberamente (pur con alcuni limiti) diffondere musica “degradata”, a maggior ragione posso registrarla nella forma della audience recording se poi nemmeno la rimetto in circolazione. Per non parlare del fatto che, per via del famigerato “iniquo compenso”, il semplice fatto di registrare su un supporto magnetico oppure ottico implica che ho già pagato i diritti d’autore.

Oltre a essere commercialmente innocue, le audience recording assolvono a una funzione culturale importantissima che è quella di documentare e conservare eventi artistici che, in loro assenza, andrebbero persi o rimarrebbero chiusi nelle casseforti digitali delle major musicali, come quelle opere d’arte stipate nei sotterranei dei musei e che nessuno – salvo pochi privilegiati – potrà mai ammirare.

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