Quale open source nella pubblica amministrazione? (un tuffo nel passato)

softwareNel 2002, quando insegnavo teoria dei sistemi informatici applicati alla didattica del diritto nella Scuola superiore per l’insegnamento secondario all’Università di Chieti, partecipai con questo intervento al ForumPA. Alcune cose si sono rivelate sbagliate, molte, esatte, troppe non ancora prese nella dovuta considerazione.

di Andrea Monti – alcei@alcei.it
Sono passati più di tre anni dalla presentazione al Forum della società dell’informazione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri del documento “E’ compito delle istituzioni liberarci dalla schiavitù elettronica” ma il documento è ancora attualissimo. Costituisce infatti, allo stato, l’analisi più lucida sulle ragioni che militano in favore della diffusione del software libero nella gestione e amministrazione della cosa pubblica.

La tesi fondamentale del documento si riassume nel proporre due linee di azione:

  1. fare si che i servizi di pubblica utilità usino programmi informatici e telematici totalmente trasparenti e aperti: cioè di cui sia noto e liberamente modificabile il “codice sorgente”.
  2. creare le condizioni per cui in nessuna comunicazione con la Pubblica Amministrazione (o con qualsiasi altro servizio di pubblica utilità) i cittadini siano mai costretti a usare programmi
    non universalmente compatibili; o, nel caso che si tratti di programmi definiti ad hoc, questi siano sempre liberamente e gratuitamente disponibili a tutti.

Purtroppo tocca registrare come, nel corso di questi anni, le scelte strategiche del Parlamento e dei governi che si sono succeduti non sono state le più felici. E si sono rivelate carenti sia nella programmazione, sia nell’indirizzo.

Così, tanto per limitarsi ad alcuni macroscopici esempi:

  • non c’è traccia dell’Open Source nel progetto italiano per la società dell’informazione presentato nel giugno 2000 (vedi, il commento pubblicato sulla rivista
    Linux&C)
  • i software per la gestione della firma digitale pesante sono stati sviluppati, dai certificatori accreditati presso la (ex)AIPA, solo ed esclusivamente in ambienti proprietari. Adducendo a
    giustificazione l’inesistenza di una massa critica di utenti tale da legittimare la produzione di software per ambienti open source (pur potendo i certificatori, ma non lo hanno fatto, rilasciare i propri software con licenza libera)
  • università e scuole – mediamente – trasmettono una “visione” dell’informatica basata sull’insegnamento delle funzioni e non delle funzionalità. Trasformando gli studenti in ciechi esecutori di azioni, incapaci di spiegare il “perchè” di certe scelte (vedi sul punto: Libertà, trasparenza e compatibilità. Non è solo un problema di software.
  • le indagini di polizia vengono svolte con software proprietari e dunque, nei processi, la difesa (ma anche il giudice) non alcun mezzo di verificare l’effettivo valore di ciò che viene presentato come “prova” dibattimentale (cfr. l’articolo “Attendibilità dei sistemi di computer forensics, pubblicato sulla testata ICT Security,
  • il disegno di legge Cortiana pur apprezzabile nello spirito, si è tradotto in una formulazione culturalmente discutibile e non rigorosa da un punto di vista tecnico-giuridico (vedi: Quali leggi per l’open source?

Se il panorama politico non è dei più stimolanti, le cose sono diverse quando ci si rivolge alla “base”. Cioè alla nutrita schiera di responsabili CED, tecnici e programmatori che, grazie anche alla lucidità di qualche dirigente, è riuscita, sicuramente con molta fatica, a far “girare” le cose anche usando software libero. Non ostante iniziative del genere si stiano moltiplicando, molto ancora c’è da fare. Ma senza un segnale chiaro da parte delle istituzioni italiane sulla volontà di percorrere una strada già aperta da altri paesi dell’Unione Europea (Francia e Germania, per esempio), difficilmente si potrà spiccare quel salto che ci regalerà  l’indipendenza tecnologica.

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