Corte di Cassazione, sez. III Penale Sent. n. 44065/11

Art. 600 ter c.p. – utilizzo programmi di file-sharing – necessità di verifica dell’effettiva volontà di diffusione – sussiste
L’uso di un programma di file-sharing per scaricare contenuti illeciti non è automaticamente prova della sussistenza del dolo, essendo necessario valutare, caso per caso, la configurabilità del reato di cui all’art. 600 ter c.p.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE IV PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

dr. Ciro Petti – Presidente

dr. Alessandro Maria Andronio – Relatore

Udienza pubblica del 26/10/2010

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

… omissis …

Ritenuto in fatto
Con sentenza del 20 dicembre 2010, la Corte d’appello di Trieste ha confermato la sentenza del Tribunale di Pordenone del 14 marzo 2008, con la quale l’imputato era stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 600 ter, terzo comma, c.p. per avere divulgato, mettendo a disposizione degli altri utenti del web, materiale pornografico prodotto con protagonisti minori degli anni 18, consentendo a chiunque fosse in quel momento collegato al servizio di file sharing di scaricare l’anzidetto materiale pedopornografico.

La responsabilità penale dell’imputato è stata ritenuta sussistente sulla base dei risultati di indagini svolte dalla polizia postale, la quale si è connessa per rilevare la lista di utenti collegati alla rete internet e condividenti, tramite un sistema peer to peer, file rispondenti alla ricerca di immagini di contenuto pedopornografico attraverso parole chiave del tipo “pedo” o “YR”, eventualmente accompagnate da indicazioni relative all’età dei soggetti ritratti. Tale procedura aveva consentito di cogliere quali utenti fossero in rete in una determinata fascia oraria per condividere file di contenuto pedopornografico, e tra questi era stato individuato il nickname M., nella cui cartella di condivisione era stato trovato un file contenente un’immagine dal contenuto chiaramente pedopornografico, sia per le caratteristiche della stessa, sia per la sua etichettatura *11 (riferito all’età YR E.).

Quanto alla volontarietà della condivisione dell’immagine in rete, questa è stata desunta dalle caratteristiche del programma di condivisione e la consapevolezza che, una volta scaricati i file sarebbero stati divulgati, la perquisizione svoltasi circa nove mesi dopo l’acquisizione dell’immagine incriminata, la polizia postale aveva ritrovato nel cestino del computer, che si trovava nella camera dell’imputato, altre immagini di contenuto pedopornografico.

2. Avverso la sentenza, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore, evidenziandone l’annullamento e lamentando, in primo luogo, la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in quanto gli elementi indiziari utilizzati ai fini della prova per l’individuazione dell’imputato quale autore del fatto sarebbero mere congetture. In particolare:

a) quanto allo username (…) e al nicknameM. usato per l’accesso al servizio di file sharing (…), la Corte di appello non avrebbe tenuto conto del fatto che nel nucleo familiare dell’imputato esistono altri soggetti che avrebbero facilmente potuto utilizzare il computer in questione;

b) quanto all’orario della connessione cioè le 15.38 di un giorno lavorativo, esso non consentirebbe alcuna presunzione relativa al fatto che i genitori dell’imputato fossero intenti in attività lavorative, trattandosi di un artigiano, per definizione privo di orario, e di una casalinga;

c) quanto alla tipologia del programma, particolarmente utilizzato dai giovani per lo scambio file attraverso la rete, essa non proverebbe nulla, perché il fenomeno della pedopornografia è ormai diffuso anche tra i giovanissimi, tanto che sarebbe potuta essere stata la sorella dell’imputato, di 13 anni all’epoca dei fatti, a scaricare il file in questione;

d) il fatto che al momento della perquisizione, svoltasi circa nove mesi dopo la connessione illecita, siano stati trovati nell’hard diskdel computer, seppure nel cestino, altre immagini a contenuto pedopornografico non proverebbe nulla, sia perché la presenza delle immagini nel cestino escludeva la volontà di mettere in condivisione con altri utenti, sia perché il computer era utilizzato potenzialmente da tutti gli appartenenti alla famiglia.

La difesa lamenta, in secondo luogo, la manifesta illogicità della motivazione in relazione al dolo, perché la Corte d’appello ha contraddittoriamente affermato che la diffusione di una sola immagine dal contenuto illecito avrebbe potuto essere avvenuta nella fase di semplice download, nell’ipotesi in cui il programma fosse stato così preventivamente impostato, cioè con la messa in condivisione simultanea a seguito dello scarico del file da internet. Precisa la difesa che tali circostanze avrebbero potuto essere valutate dalla Corte d’appello nel senso di escludere la consapevolezza dell’avere scaricato un file a contenuto illecito e, soprattutto, della sua diffusione sulla rete.

Si lamenta, in terzo luogo, il difetto di motivazione della sentenza impugnata in relazione alla circostanza che dall’esame del file si potesse desumere, senz’ombra di dubbio, il contenuto osceno della foto e la minore età della persona ritratta. L’imputato avrebbe infatti preso visione di un’immagine diversa, perché molto più piccola, rispetto a quella ricavata dalla polizia postale attraverso l’ingrandimento, tanto che la corte d’appello avrebbe ricavato in via congetturale la natura illecita della foto dalla sua etichettatura.

Considerato in diritto
3. – Il ricorso è parzialmente fondato.

3.1 – Il primo motivo di doglianza – con cui si deduce la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in quanto gli elementi indiziari utilizzati ai fini della prova per l’individuazione dell’imputato quale autore del fatto sarebbero mere congetture – è infondato. La sentenza censurata reca, infatti, una motivazione completa e coerente sul punto dell’ascrivibilità del download e della detenzione del file incriminati all’imputato, perché evidenzia, quali elementi decisivi, lo username e il nickname, formati con la parola M. nome dell’imputato, e soprattutto la presenza del computer in camera sua all’atto della perquisizione, presenza segnalata agli inquirenti dallo stesso imputato.

3.2 – Del pari infondato è il terzo motivo di ricorso, con cui si denuncia il difetto di motivazione della sentenza impugnata in relazione alla circostanza che all’esame del file si potesse desumere senz’ombra di dubbio, il contenuto osceno della foto e la minore età della persona ritratta.Correttamente, infatti, la sentenza censurata evidenzia che, al di là della maggiore o minore nitidezza dell’immagine, legata alla sua dimensione, il file aveva una denominazione tale da riferirsi inequivocabilmente ad un soggetto minorenne di sesso femminile. A ciò deve, peraltro, aggiungersi che la presenza di foto dello stesso tipo nel cestino del computer è elemento che conferma la consapevolezza, in capo all’imputato, dell’illiceità delle immagini scaricate.

3.3.- Il secondo motivo di impugnazione – con cui si lamenta che la Corte d’appello non ha considerato la circostanza che la diffusione di una sola immagine del contenuto illecito avrebbe potuto essere avvenuta nella fase di semplice download, così dovendosi escludere la consapevolezza della diffusione sulla rete di un file a contenuto illecito – è fondato.

Come evidenziato dalla giurisprudenza di questa Corte, affinché sussista il dolo del reato di cui all’art. 603-ter. Comma 3, c.p., occorre che sia provato che il soggetto abbia avuto, non solo la volontà di procurarsi materiale pedopornografico, ma anche la specifica volontà di distribuirlo, divulgarlo, diffonderlo o pubblicizzarlo, desumibile da elementi specifici e ulteriori rispetto al mero uso di un programma di file sharing. Va ricordato, infatti, che l’art. 600-ter, comma 3, c.p. punisce, tra l’altro, chiunque«con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza» materiale pedopornografico.

Si tratta, nei singoli casi concreti, di questione interpretativa abbastanza delicata, perché il sistema dovrebbe essere razionalmente ricostruito giungendo a soluzioni che tengano conto delle effettive caratteristiche e delle concrete modalità di utilizzo di programmi del genere da parte della massa degli utenti e che,nello stesso tempo, soddisfino l’esigenza di contrastare efficacemente una assai grave e pericolosa attività illecita, quale la diffusione di materiale pornografico minorile, cercando però di evitare di coinvolgere soggetti che possono essere in piena buona fede o che comunque possono non avere avuto nessuna volontà o addirittura consapevolezza di diffondere materiale illecito, soltanto perché stanno utilizzando questi (e non altri) programmi di condivisione, e cercando altresì di evitare che si determini di fatto la scomparsa di programmi del genere.

Del resto, le due suddette esigenze ben possono essere entrambe soddisfatte perché, con indagini adeguate, è possibile accertare chi stia davvero agendo col dolo di diffondere e non solo con quello di acquisire e con la consapevolezza del vero contenuto dei file detenuti. Una diversa interpretazione, secondo cui la semplice volontà di procurarsi un file illecito utilizzando un programma timo Emule o simili, implicherebbe, di per se stessa e senza altri elementi di riscontro, sempre e necessariamente anche la volontà di diffonderlo (solo in considerazione della modalità di funzionamento del programma e del fatto che questo permette l’upload anche senza alcun intervento di un soggetto che concretamente metta il file in condivisone), porterebbe a configurare una sorta di presunzione iuris et de iure di volontà di diffusione o una sorta di responsabilità oggettiva, fondate esclusivamente sul fatto che, per procurarsi il file, il soggetto sta usando un determinato programma di condivisione e non un programma o un metodo diversi. (Sez. III, 12 gennaio 2010, n. 11082; Sez. III, 7 novembre 2008, n. 11169).

Venendo al caso in esame, deve rilevarsi che, da quanto emerge dalla descrizione del fatto contenuta nella sentenza censurata, l’imputato ha sicuramente commesso la condotta prevista e punita come reato dall’art. 609-quater cod. pen., essendosi consapevolmente procurato (scaricandone uno da altri utenti attraverso il programma Kazaa) ed avendo consapevolmente detenuto file pedopornografici. La Corte d’appello ha però qualificato il fatto ai sensi dell’art. 600-ter, comma 3, invece che ai sensi dell’art. 600-quater cod. pen.; e ciò, sulla base della sola circostanza che l’imputato stava utilizzando il programma di file sarin Kazaa, ossia ravvisando in sostanza nell’utilizzazione di tale programma una sorta di responsabilità oggettiva.Tale qualificazione appare, dunque, erronea, perché, come si è già osservato, la pronuncia censurata ha sostanzialmente ritenuto che la sola condotta di essersi procurato i file pedopornografici mediante la utilizzazione di un programma di condivisione integri il reato di divulgazione del materiale, a prescindere dalla sussistenza di ulteriori specifici elementi in tal senso.

4.- Ne deriva che la fattispecie per la quale è stata riconosciuta la responsabilità penale dell’imputato deve essere riqualificata come violazione dell’art. 600-quater c.p. e che la sentenza impugnata deve, di conseguenza, essere annullata con rinvio, limitatamente alla determinazione della pena applicabile.

P.Q.M.

Riqualificato il fatto come violazione dell’art. 600-quater c.p., annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste per la determinazione della pena.

Rigetta nel resto

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