Ripensare l’open source?

Linux&Co n.ro 24

di Andrea Monti

L’open source stenta a spiccare il salto di qualità di cui avrebbe bisogno per competere da pari a pari con gli altri protagonisti del settore ICT. Una delle ragioni di questo stallo è sicuramente l’assopimento culturale del progetto che si è addormentato oramai da qualche anno. Persino in importanti conferenze rivolte ad aziende e pubbliche amministrazioni si continua ancora oggi a parlare secondo quelli che sono diventati dei veri e propri dogmi. Che non possono essere messi in discussione senza essere accusati di eresia. Anche quando, come nel caso della proposta di legge sul software libero, ci sono fortissime perplessità sulla ragionevolezza di certe scelte. O anche nel caso, vedi la questione Mandrake/Staroffice, in cui si evidenziano precise scelte commerciali che sono in rotta di collisione con le “dichiarazioni di principio” che dovrebbero essere la “Carta costituzionale” del software libero.

Ma non è solo responsabilità delle imprese (penso sempre a Mandrake come caso esemplare), perchè anche noi utenti (per lo meno quelli più sensibili) abbiamo le nostre colpe. Prima fra tutte la pigrizia parassitaria che ci porta – per esempio – ad aspettare passivamente il rilascio di nuovi applicativi senza partecipare ai processi di debugging (anche solo segnalando i crash), “scaricando” su “qualcun altro” il compito di fare il lavoro. Siamo anche affetti da un certo “disinteresse” per le questioni di vil danaro che si traduce nella mancanza di supporto economico alla nostra distribution preferita. Sembra proprio che il motore cominci a perdere colpi perchè non si è innestato quel sistema di feedback fra utenti, imprese e sviluppatori in grado di far decollare il software libero. Insomma, se il giocattolo non si è ancora rotto, poco ci manca. Con l’aggravante che non è stato un “precettore” cattivo ed invadente a scassarlo. Ma siamo stati noi a metterlo fuori uso.

Forse, allora, è giunto il momento di mettere in discussione idee e concetti che abbiamo accettato troppo supinamente, ipnotizzati dal “paradiso in terra” che sembravano promettere. In particolare ci sono due domande alle quali è necessario dare una risposta. La prima: è veramente desiderabile e praticabile che le pubbliche amministrazioni si muovano verso l’open source? La seconda: si può fare business esclusivamente puntando sull’open source?

Cominciamo dall’ultima domanda analizzando quello che probabilmente è destinato a diventare “l’affaire Mandrake”. La distro francese è palesemente in gravi difficoltà. Tanto che dichiara, senza mezzi termini, di essere in crisi di liquidità, non ostante la notevole diffusione, un elevato numero di utenti e di “credits” guadagnati sul campo. Una situazione, si legge sempre sul sito ufficiale, che si ritiene di fronteggiare con una serie di iniziative volte ad incentivare l’acquisto di servizi offerti dalla società stessa. In particolare viene “spinta” fortemente l’offerta in anteprima di Staroffice 6.0 finale(solo per chi ha pagato almeno l’adesione alla “Silver Membership” – 120US$/anno). Questo, grazie al fatto che Sun ha accettato di estendere il contratto OEM anche agli utenti registrati di Mandrake. In pratica, Mandrake paga a Sun una royalty per ogni utente registrato che scarica Staroffice 6.0 e il resto lo tiene in cassa. Fino a qui nulla da dire. Eccetto per il fatto che SO6 è proprietario e che Mandrake ha discriminato quella parte di comunità “meno abbiente” e dunque non in grado di pagare l’iscrizione al club (niente di strano per un produttore tradizionale, ma per una open source company…). Il fatto è che – come ho sperimentato in prima persona – sia Staroffice 6.0 (italiano e inglese) sia il database Adabas ne hanno voluto sapere di funzionare. Crash a ripetizione, persino su operazioni essenziali come l’apertura di un file word o il salvataggio in RTF, continui reboot e vi risparmio il resto. Scopro leggendo la mailing list su Staroffice di non essere affatto il solo ad avere avuto questo tipo di problemi, che hanno afflitto un gran numero di persone (come me, “soci paganti” del Mandrake Silver Club). Il problema non dipende dai miei computer. Scopro pure che Mandrake, più volte invocata dagli utenti, osserva un rigorosissimo silenzio (con buona pace dell’approccio “open”). Consultando il sito di Sun (http://www.sun.com/staroffice) apprendo poi che è stata rilasciata una patch per prolungare il funzionamento della beta di SO6 fino a giugno prossimo.

E a questo punto arrivano le domande per “Mr.Mandrake”, che ben potrebbero riguardare uno qualsiasi dei tanti produttori di software proprietario.

1 – Avete testato il software prima di distribuirlo? Probabilmente no, ma considerando che non è open source, come avreste potuto farlo? 2 – Fino a quando un software è gratis l’utente ha (relativamente) poco diritto di protestare. Ma avendo richiesto dei soldi per un programma (promettendo peraltro che avrebbe fatto scintille) e insistendo sul “valore aggiunto” costituito dal “servizio” perchè di questo “servizio” non c’è alcuna traccia?
3 – Chi fornisce il supporto per questo programma?
4 – Considerando che Sun ha prolungato la vita di Staroffice 6.0 beta fino al prossimo giugno, come è possibile che Mandrake stia distribuendo una versione definitiva di questa applicazione?
5 – Perchè Mandrake non risponde alle (più che legittime) richieste di chiarimento degli utenti?

Come ho detto, queste scelte commerciali e questi atteggiamenti nei confronti degli utenti sono molto poco appropriati ad una open source company è più pertinenti ad altri noti “produttori” di software proprietario. Si potrebbe quasi dire che Sun e Mandrake abbiano “gettato la maschera” del software libero per mostrare il loro vero volto, quello del “business is business” o, se preferite, “pecunia non olet” (il denaro non puzza).

Ma non è questo il punto. Intendiamoci, non c’è assolutamente nulla di male nel “fare business” con l’open source, anzi, sarebbe estremamente salutare per l’industria se il software libero si diffondesse più di quanto lo è adesso. E’ importante capire, però, che il successo di un modello economico basato sull’open source dipende fortissimamente dal rapporto con gli utenti, da un lato, e con gli sviluppatori dall’altro basato sul rispetto e sul coinvolgimento. Se viene meno questa – uso un’espressione forte – “tensione ideale” il motore si inceppa (come ha già dimostrato in passato la vicenda di Netscape 6). A questo punto, una software house vale l’altra e tanto vale affidarsi alle “cure” di noti e paternalistici giganti piuttosto che beccarsi lo stesso un esaurimento nervoso senza nemmeno la parvenza di una cura.

Non intendo affatto formulare giudizi di valore sulle scelte di Sun e di Mandrake perchè mi interessa la questione più generale. Quando un’azienda entra nella mischia, partecipa al mercato azionario, deve rispondere ad azionisti, soci e investitori inevitabilmente comincia a stabilire un ordine diverso di priorità. E a rivedere i calcoli che, magari opportunisticamente, la hanno indotta a battere il ferro dell’open source fino a quando era caldo, in attesa del momento in cui – acquisita una certa stabilità – fare “indietro tutta” verso i più “rassicuranti” lidi del mondo proprietario.

Tanto per essere chiari: fra i colossi che supportano Linux nessuno hai mai “prestato giuramento”. HP e IBM continuano ad offrire soluzioni anche proprietarie (perché non dovrebbero farlo?) e alcuni – Dell tanto per fare un nome – hanno cominciato a ridurre il proprio impegno con Linux verso il mercato desktop.

L’interesse pragmatico verso questo ambiente deriva dalla richiesta di mercato e infatti nessuno ha svenduto i gioielli di famiglia (brevetti, diritti d’autore, quote di mercato) per abbracciare il culto dell’ecumenismo digitale con tutti i suoi parafernalia.

Sul versante delle open source company Mandrake non è certo la sola ad avere qualche problema di coscienza. Prima di lei ci fu la eclatante – anche se poco nota – la rivendicazione di Red Hat che qualche tempo fa ha minacciato azioni legali nei confronti di rendeva disponibile senza autorizzazione la distribution omonima. Sostenendo che in questo modo venivano violati i propri diritti d’autore. Insomma, il lato business dell’open source non è così amichevole come potrebbe sembrare. E le oggettive difficoltà nelle quali si trovano quelli che hanno scommesso sul software libero danno più forza e argomenti a chi continua a puntare interessatamente su una visione distorta del software proprietario. Metafora ippica a parte, premesso che immagino un mercato in cui software libero e non, possano convivere, mi pare evidente che l’attuale squilibrio, derivante pure da lobbismo e intrecci di interessi, possa essere ridotto con un serio intervento pubblico. Che favorisca l’utilizzo dell’open source nella pubblica amministrazione.

Ma non è certo la proposta di legge avanzata dai Verdi – “razzista” al contrario e discriminatrice della concorrenza – a rappresentare la soluzione. E’ peraltro curioso che Verdi e DS “scoprano” l’open source solo ora che sono all’opposizione. Ignorando, o facendo finta di ignorare che fin dal 1999 al Forum per la Società dell’informazione della Presidenza del Consiglio venne presentato il documento “E’ compito delle istituzioni liberarci dalla schiavitù elettronica” (chi ha voglia lo trova sulla home page di ALCEI – http://www.alcei.it). Ma dei contenuti di una cosmetica proposta di una legge (fortunatamente) destinata a non procedere oltre, che mira a sostituire un monopolio con una chiesa parleremo nel prossimo numero.

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