Open source e pubblica amministrazione, non è solo questione di soldi

Interlex n. 149

di Andrea Monti

L’iniziativa che ha segnalato lo stato di soggezione della pubblica amministrazione italiana ai prodotti Microsoft ha suscitato un giusto e meritato interesse. Che però si è focalizzato principalmente su due aspetti di importanza non centralissima: lo “scontro” fra due tecnologie (Linux da un lato, Windows dall’altro) e le pur indubitabili economie realizzabili impiegando software libero.
In una prospettiva di più ampio respiro, tuttavia, questi aspetti perdono di nitidezza e da soli non giustificano con la forza sufficiente il chiedere allo Stato di non utilizzare più software del quale non si ha la disponibilità dei sorgenti e che non sia liberamente modificabile e riproducibile.
Ammettiamo infatti, ovviamente per assurdo, che da domani alla pubblica amministrazione siano regalati i software che – diversamente – si dovrebbero pagare a caro prezzo. Sarebbe risolto in un colpo solo il problema dei costi e della compatibilità (ma al prezzo di costringere comunque i cittadini a spendere somme rilevanti per acquistare gli unici programmi che consentirebbero di interagire con lo Stato) Cambierebbe qualcosa?

No, saremmo esattamente allo stesso punto: lo Stato si troverebbe ancora nella stessa condizione dalla quale lo si voleva emancipare. Perché continuerebbe ad utilizzare tecnologie sulle quali non ha alcun controllo e che da un momento all’altro – senza alcun preavviso – potrebbero “essere usate contro di lui” (e contro i cittadini, in definitiva). Sarebbe come attribuire ad un soggetto privato – per di più straniero – la titolarità della lingua nazionale, lasciando a costui il potere di decidere quali parole usare, come, con quale significato e quando. Nonché il potere di crearne di nuove e di porne altre in desuetudine.

In concreto, tutto questo si traduce in maggiori costi, inefficienze e scarsa sicurezza..
Significa impedire la creazione e la redistribuzione di posti di lavoro e dunque di ricchezza. Perché i costi notevoli delle licenze potrebbero servire a retribuire persone o aziende che sviluppano, installano e configurano programmi, invece di essere impiegati per comprare “scatole vuote”.
Significa sprecare tempo, soldi ed efficienza in formazione continua del personale pubblico, in riconversione di dati e programmi, nell’acquisto di hardware sempre più costosi.
Significa lasciare il controllo di informazioni critiche e “sensibili” (sanità, difesa, interni, economia) nelle mani dell’unico soggetto che ha accesso al cuore delle applicazioni che le gestiscono. Che dunque ha la possibilità di accedere impunemente ai punti nevralgici delle istituzioni..
Significa rendere più vulnerabili le infrastrutture di comunicazione del paese. Come ha dimostrato la recente incursione di criminali brasiliani nei web di ministeri e autorità.

Non è possibile che lo Stato rinunci in modo così sistematico ad un ruolo attivo nella profonda riforma che lo vede contemporaneamente artefice e oggetto e alle responsabilità che questo implica. In definitiva, quindi, si sta discutendo non (solo) di soldi ma di libertà e della necessità che lo Stato eserciti la sua funzione di garante dell’interesse pubblico.
Di questi temi si parla in Italia fin dal 1998 – e si continua a parlare – fondamentalmente per merito di ALCEI che fu la prima ad inquadrare la problematica Open Source in un comunicato e poi in svariate occasioni. Ad esempio con l’intervento al Forum della Società per l’informazione e al convegno internazionale Computer Freedom and Privacy 2000.

Ma a fronte dell’interesse suscitato dalle varie iniziative c’è sempre stato uno scarso riscontro concreto.
Il problema serio che si è evidenziato nel corso di questi due anni è la poca attitudine delle istituzioni ad ascoltare quelle parti della società civile che possiedono adeguata esperienza e preparazione e a raccogliere i loro contributi. Al contrario di quanto accade per esempio in Francia (dove è stata proposta una legge per l’eliminazione di software non liberi dalla PA) o in Germania (con il finanziamento pubblico del progetto GPG) dove, grazie alla cooperazione fra Governo e società civile, si stanno registrando significativi passi avanti..
E’ dunque importante, per l’Italia, non perdere questa grande opportunità di rinnovamento. Avvalendosi anche dell’aiuto di chi – come ALCEI – mette a disposizione il proprio patrimonio di esperienze senza essere condizionato da logiche di profitto.

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