War by other means

di Andrea Monti – WebMarketing Tools n. 6-98

Questo articolo si occupa del diritto d’autore o – come vezzosamente amano dire gli anglofoni a tutti i costi – copyright, e proprio per non violarlo in apertura dirò subito che il titolo non è originale, dato che in realtà individua un bel libro sullo spionaggio industriale scritto da John Fialka.

Guerra (combattuta) con altri mezzi dunque… ma cosa c’entra con il diritto d’autore e – soprattutto – con gli argomenti di cui tratto in questa rubrica?

La prendo alla lontana.

Uno degli effetti collaterali della digitalizzazione dell’informazione è avere innescato la crisi di uno dei più antichi oligopoli della storia umana: quello sul controllo delle tecnologie per la creazione e diffusione del sapere. Santificato da leggi e convenzioni internazionali e difeso da lobby potentissime che giorno dopo giorno vegliano affinché il “progetto” non subisca deviazioni sgradite, ciò che ipocritamente viene chiamato diritto d’autore è sempre stato considerato un feudo da amministrare spesso con una giustizia sommaria grazie soprattutto alla scarsa attenzione della collettività verso l’argomento; come dire: occhio non vede, cuore non duole.

Fino ad ora.

La singolare congiuntura che ha unito la Rete con la diffusione di tecnologia a basso costo ha (ri)messo nelle mani praticamente di chiunque (anche se non sono ancora tantissimi) il potere di riprodurre il sapere.

Questa situazione è chiaramente percepita come destabilizzante dalle major del settore che, forse per la prima volta nella loro storia, sono state costrette a venire allo scoperto con tutto il loro arsenale, tanto potente quanto utilizzato goffamente, specie per quanto riguarda il settore del software.

E’ proprio dall’informatica (meglio, da quel mondo sommariamente etichettato “pirateria informatica”) che arrivano – a dire degli “esperti” – le minacce più gravi per il misterioso universo delle opere dell’ingegno.

Dopo l’età dell’oro, nella quale si chiudeva un occhio (e spesso tutti e due, insieme alle orecchie) sul fenomeno della duplicazione non autorizzata e che ha visto proprio grazie a questo fenomeno l’affermarsi di standard de facto, qualche anno fa i giganti si sono destati dal curioso torpore che li aveva dominati fino ad allora e prendono dispiegare tutti i loro poteri per fare approvare in fretta e furia una leggi – in proporzione – di inaudito rigore che sanzionano penalmente la duplicazione non autorizzata di programmi.

Ovviamente nessuno – è bene chiarirlo – vuole sostenere l’assoluta legittimità del diritto di privare gli autori del giusto compenso per la loro opera intellettuale, ma è anche vero che la (giusta) tutela di un diritto economico non può assolutamente legittimare l’adozione di indiscriminate “soluzioni finali” dal punto di vista normativo e l’impiego di sistemi ai limiti della censura e dell’intimidazione per quanto riguarda l’informazione: c’è una misura per tutte le cose!

Immagino le reazioni ad un discorso del genere: dagli inviti al pragmatismo (chi copia software se ne frega della cultura, vuole solo fare soldi) alle etichettature più o meno politicizzate (deliri estremistico-anarcoidi) alla becera difesa del portafogli (stiamo spendendo un sacco di soldi, non vogliamo che qualcuno ci rompa le uova nel paniere)… poi vado a guardare i fatti e mi accorgo che la necessità di tutelare interessi economici sacrosanti (i diritti economici sulle opere dell’ingegno) dei quali nessuno intende affermare l’inesistenza o la limitazione sta avendo conseguenze altrettanto devastanti del “trattamento” giuridico e culturale riservato all’Internet.

Una legge folle che punisce la duplicazione abusiva di programmi con pene applicate in concreto che possono superare quelle previste per l’omicidio colposo plurimo, è organizzata in modo che non ci sia bisogno di una querela (cioè dell’impulso di chi ha interesse a trovare il colpevole) per aprire il procedimento penale. Basta che anche solo la Polizia Municipale – controllando un’autorizzazione sanitaria – si accorga dell’esistenza di programmi sospetti per far partire l’indagine; in questo modo le software house devono solo aspettare che qualcun altro levi le castagne dal fuoco per loro. Se poi, a scanso di equivoci, si “da’ una mano” alle indagini mettendo su un articolato sistema di delazione anonima, tanto di guadagnato.

Fortunatamente due sentenze illuminate (Pretura di Cagliari e Pretura di Bologna) hanno cominciato a porre un limite a questa esagerazione: la duplicazione diventa reato quando è finalizzata all’ottenimento di un lucro, cioè di un incremento patrimoniale, e non al risparmio di spesa, che invece è – tecnicamente – da considerare “profitto”. Una volta tanto la cavillosità dell’interpretazione giuridica produce effetti non perversi!

L’importanza di queste due sentenze sta nel fatto che – a quanto mi risulta – sono le uniche ad essere state emanate dopo un processo in piena regola e quindi le uniche in grado di costituire un “precedente” (anche se da noi la cosa non è così importante come negli States).

Si potrebbe dunque tirare un sospiro di sollievo (finalmente vengono puniti i veri colpevoli), se alcuni segnali non suggerissero di frenare l’ottimismo.

I processi penali non finiscono sempre con una sentenza vera e propria (come quella d cui sopra), perché in molti casi si ricorre al “patteggiamento”, cioè ad un accordo preventivo con l’accusa grazie al quale, concordata la pena, si arriva direttamente alla sentenza senza che il giudice (terzo rispetto ad accusa e difesa) prenda nemmeno cognizione del merito. Queste sentenze non richiedono praticamente di essere motivate, anche perché il giudice non sa nulla di come sono andate le cose. Stranamente almeno un processo in materia di “pirateria software” dove erano presenti anche alcune grosse software house e definito con un patteggiamento, ha prodotto una sentenza con una superflua pagina e mezza di motivazione. Agli occhi dei profani questa circostanza dice poco o nulla, ma insospettisce gli addetti ai lavori, soprattutto quando poi, nel settore dell’informazione, la sentenza viene utilizzata come se avesse una forza che in realtà non le compete, mentre è rigorosamente taciuta l’esistenza delle sentenza “vere”…

Non è finita.

Una recente campagna pubblicitaria promossa dalla Business Software Alliance promette di sospendere le azioni giudiziarie contro gli utenti se entro un certo termine questi ultimi decidono di “mettersi in regola”; finalmente un po’ di buon senso, dunque… purtroppo non è così perché l’impegno non può essere mantenuto. Come ho detto, siccome la duplicazione abusiva è punibile automaticamente, non è di nessuna utilità rinunciare alle azioni legali, tanto l’autorità giudiziaria non ha bisogno della querela di chicchessia per andare avanti.

Mentre in pubblico accade tutto questo, dietro le quinte la strategia prevede di cercare di ridurre al silenzio le opinioni dissenzienti con sistemi al limite della correttezza, fatto che disegna un quadro preoccupante: organizzazioni che cercano di controllare la formazione delle leggi, la celebrazione dei processi e la libertà di stampa… forse, invece di usare il titolo del libro di Fialka sarebbe stato meglio “scippare” quello di Michelle Slatalla e Joshua Quittner: Masters of deception. The Gang That Ruled The Cyberspace.

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