In ogni invito a cena c’è qualcuno che paga il conto (ovvero, attenzione alle note del Pifferaio Magico)

WMTools n.ro 20

di Andrea Monti

Una storiella molto nota nell’ambiente dei commerciali racconta di due venditori di scarpe che nell’affannoso tentativo di aprire nuovi mercati arrivano fino in un paese del terzo mondo. Uno dei due – constatando che la popolazione non aveva praticamente idea di cosa fosse una calzatura, scrive alla sede centrale dicendo: “tutti scalzi, mercato inesistente, torno alla base”. Il secondo invia una messaggio totalmente diverso: “tutti scalzi, mercato vergine, apro filiale”.
La situazione dell’internet è pressappoco la stessa: un mercato potenzialmente molto esteso ma disinteressato o refrattario al prodotto, letteralmente invaso di venditori disperatamente in cerca di idee per riuscire – se non a guadagnare – a tenere in piedi la filiale aperta sull’onda dell’entusiasmo.
Uno dei sistemi più gettonati del momento è quello di offrire servizi internet gratuiti e infatti – dopo un avvio stentato – si è diffusa a macchia d’olio la tendenza a regalare di tutto, dalla posta elettronica alle home-page fino ad arrivare all’accesso all’internet e – pare – ai personal computer.

Non pagare non sempre vuol dire “gratis”
Peccato che non è tutto oro quello che luccica e che molte iniziative nascondono insidie e inganni, a partire dal fatto che in realtà praticamente nessuno di questi servizi è veramente gratuito.
Certo, per la home-page o per l’accesso all’internet all’utente non viene chiesta alcuna contropartita in denaro, ma questo non significa che il rapporto con il provider sia privo di contenuto patrimoniale (anche perché altrimenti giuridicamente non esisterebbe il contratto).
In cambio di una manciata di byte – pochi mega, in molti casi – l’utente ospita pubblicità sul proprio spazio o cede al “magnanimo” provider i propri dati personali (e in qualche caso anche quelli altrui). A fronte di una “elargizione” quantificabile in poche centinaia di migliaia di lire (il costo di un abbonamento all’internet) l’utente restituisce al provider (sotto forma di pagine web che attirano traffico o di materiale per la creazione di profili utenti) un “qualcosa” che ha un valore economico certamente superiore a quello del servizio “gratuito”. In altri termini questo vuol dire che l’utente paga salatamente – in natura, ma comunque paga – ciò di cui usufruisce. Con un piccolo particolare: che con la scusa del finto-gratis egli viene espropriato dei suoi diritti. Il provider non ha il dovere di fornire un servizio continuativo, può risolvere il contratto in qualsiasi momento, l’utente deve subire spamming e accettare di vivere come un pesce rosso nella boccia di vetro, controllato in ogni singolo palpitare di branchie.

Un paio di esempi pratici
Recentemente Geocities, acquistata da Yahoo, cambia le regole per i suoi homstader (gli abitanti) attribuendosi in modo unilaterale il diritto di riutilizzare in qualsiasi modo (inclusa la realizzazione di CD contenenti le pagine degli utenti, o la pubblicazione dei testi e via discorrendo) il materiale presente sui suoi server. E meno male che il servizio era gratuito! La protesta degli utenti ha indotto Geocities ad una veloce marcia indietro (i cui contenuti comunque meriterebbero di essere tuttavia ben approfonditi), ma questo non cambia i termini della questione. I servizi sono certamente free ma nel senso di “liberi da usare” e non – lo ripeto – in quello di “gratis”.
Anche l’Italia dal canto suo non scherza, come dimostra il servizio di accesso “gratuito” denominato “Libero” e promosso da una campagna pubblicitaria estremamente aggressiva. Come il canto della sirena, la melodia dell’internet gratis ha ipnotizzato migliaia di navigatori di lungo e breve corso che liberatisi (almeno così credono) dalla schiavitù dell’abbonamento ora sono “liberi” di navigare pur al costo della sola (TUTt’ora odiatissima Tariffa Urbana a Tempo). I poveri illusi non hanno letto, o se lo hanno fatto, non lo hanno capito, il contratto che il fornitore propone loro In cambio di un accesso di modico valore si forniscono tanti e tali dati sulla propria persona, da mandare in brodo di giuggiole il più algido dei responsabili marketing.

Interludio
L’offerta in questione è strutturata secondo modalità contrattuali molto discutibili, segnalate con un documento ben argomentato (reperibile su http://www.alcei.it ) da ALCEI all’Autodisciplina pubblicitaria, all’Antitrust e la Garante per i dati personali. Ad oggi – siamo alla fine di luglio – dei tre soggetti interpellati, solo il primo ha dato notizia di sé comunicando di avere ricevuto la segnalazione, mentre i due Garanti sembrano essere in tutt’altre faccende affaccendati. Magari fra qualche mese spunterà fuori una “vibrante protesta” per il modo in cui è stata condotta la campagna pubblicitaria e per la scarsa tutela dei dati personali, ma, come si dice, passata la festa, gabbato il Santo. Chi mai – alle prese con il gadget del momento – si ricorderà di queste cose? D’altra parte questo null’altro è se non lo specchio dell’ipocrisia tipicamente italiana di un legislatore
che sulla carta prevede leggi, tutele e sanzioni, poi nella realtà produce lungaggini e burocrazia.

Si al “baratto” purché trasparente
Torniamo a bomba. In via di principio, non mi sembra censurabile il fatto che due soggetti si accordino per scambiare un servizio con dati personali o opere dell’ingegno. Del resto l’autonomia delle parti lo consente, e potrebbe anche essere uno strumento utile per lo sviluppo delle attività economiche sull’internet. Sono molto meno disposto ad accettare comportamenti commerciali che si basano su ambiguità e cavilli formalmente forse corretti ma sostanzialmente recettivi. Specie quando speculano sull’ignoranza delle persone, ancora una volta viste come limoni da spremere alla bisogna piuttosto che come clienti. Per dirla con padre Dante dunque, è il modo ancor m’offende.

La prossima volta, nell’accettare l’invito a cena del Pifferaio Magico di turno, informatevi per tempo su chi pagherà il conto…prima che sia troppo tardi.

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