Il DPCM TIM-Huawei e il superamento del nodo Cina

La Presidenza del Consiglio individua le condizioni per l’uso della tecnologia Huawei per la rete 5G italiana e fornisce un supporto al superamento delle tensioni fra USA e Cina di Andrea Monti – originariamente pubblicato da Formiche.net

Con il  DPCM 7 agosto 2020 la Presidenza del Consiglio consente a TIM di utilizzare in Italia la tecnologia 5G di Huawei avendo individuato adeguate misure di prevenzione dei rischi derivanti dall’utilizzazione di apparati cinesi per la rete di nuova generazione del nostro Paese. La notizia segue a ruota, e contraddice chiaramente, l’esclusione di Huawei dalla gara per fornire alla stessa TIM gli stessi apparati 5G di cui già si era parlato su Formiche.net  e motivata dall’azienda italiana con la necessità di “diversificazione dei partner” (requisito peraltro poi imposto dal DPCM Conte-Huawei)

Il modello di prevenzione e tutela della sicurezza nazionale

Il DPCM Conte-Huawei adotta un modello di prevenzione e di tutela della sicurezza nazionale totalmente delegate all’operatore privato. Le prescrizioni, infatti, riguardano la sola TIM e non anche Huawei (quantomeno, tramite la sua filiale italiana).

Il gancio al quale si appende l’intera catena della prevenzione è la notifica della dislocazione degli apparati utilizzati. Il governo, dunque, deve essere in condizioni di sapere sempre quali apparati sono installati, dove e quando sono modificati o sostituiti. A questo proposito, TIM ha il dovere di eseguire una valutazione del rischio ogni volta che cambiano le caratteristiche degli apparati da controllare, definire dei criteri di accreditamento dei fornitori orientati alla sicurezza, che si estendono sino ai controlli sulla produzione. Queste valutazioni, ai sensi dell’articolo 1 comma I lett.e) possono essere eseguite anche sulla base di documentazione rilasciata dal fornitore o da organismi di certificazione, senza il bisogno di controllare fisicamente la veridicità di quanto dichiarato.

il DPCM prevede inoltre la facoltà per TIM —e non il dovere, visto che la lettera h) del comma I utilizza il verbo “potere”— di eseguire verifiche su progetti hardware e codici sorgenti degli apparati utilizzati. Nonchè il divieto di comunicare a chiunque, autorità governative estere incluse, le informazioni relative all’operazione.

In termini operativi, il perno attorno al quale ruota l’attività di prevenzione è la funzione security di TIM S.p.a. che, a norma dell’articolo 1 comma I del DPCM dovrà essere “coinvolta” nei processi decisionali critici, ma senza che chiarire se il suo coinvolgimento sia o meno soltanto consultivo. Inoltre —comma I lett. d)— la funzione security dovrà partecipare alla progettazione e alla gestione della sicurezza relativa ai componenti 5g basata sul concetto di diversificazione dei fornitori.

Queste, in sintesi, le prescrizioni più rilevanti necessarie alla tutela della sicurezza nazionale che, nei fatti, delegano integralmente ad un operatore privato il controllo sull’effettiva utilizzabilità degli apparati stranieri.

Siamo di fronte ad un altro passo verso la creazione di un “ordine pubblico tecnologico”   che si basa sulla presa d’atto da parte del governo della necessità indispensabile di una gestione partecipata della sicurezza insieme a soggetti privati.

Le conseguenze internazionali del DPCM Conte-Huawei

Il DPCM Conte-Huawei ha degli effetti che vanno oltre la tutela degli interessi nazionali.  

In primo luogo, se le prescrizioni imposte a TIM S.p.a. consentono, secondo gli esperti della Presidenza, l’uso sicuro degli apparati cinesi, vengono meno i rischi per la sicurezza nazionale individuati dall’intelligence americana e inglese . Di conseguenza, nulla vieterebbe di estendere l’approccio italiano a livello comunitario e internazionale, ponendo fine così ad almeno una delle battaglie fra USA e Cina nel corso della Cold War II.

In secondo luogo, non andrebbe sottovalutata la possibilità di una battaglia legale promossa da Huawei contro USA e Inghilterra per i danni derivanti dalle conseguenze delle affermazioni sulla pericolosità dell’azienda cinese, poi ridimensionata dalla scelta italiana. Sarà dunque interessante vedere in che modo l’amministrazione Trump e quella Johnson valuteranno le scelte del loro omologo italiano, e come supereranno l’imbarazzo di avere dichiarato la “pericolosità intrinseca” di Huawei a fronte della soluzione pragmatica adottata dal Governo italiano che invece le rende pienamente utilizzabili.

Infine, sarà anche interessante vedere se, in considerazione del fatto noto da tempo che gli USA hanno condotto azioni di intelligence verso i Paesi UE, il governo italiano imporrà analoghe prescrizioni nei confronti dei fornitori americani di tecnologie utilizzate in ambiti critici.

Conclusioni

Il DPCM Conte-Huawei adotta una scelta politica discutibile, quella di delegare in toto le verifiche di sicurezza ad un soggetto privato, ma ha il pregio di abbandonare un paralizzante principio di precauzione in favore di una scelta pragmatica basata sulla sperimentazione in vivo.

Senza girarci attorno, il successo del modello Conte dipende dall’effettivo rispetto, da parte di TIM, delle prescrizioni imposte dalla Presidenza del Consiglio. E a questo proposito, sarebbe stato preferibile che nella sua componente centrale, quella dei controlli sulla progettazione e produzione degli apparati Huawei, il governo avesse utilizzato il verbo “dovere” invece che “potere”.

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