COVID-19: gli “zelanti della privacy” e l’ipocrisia del condizionale

Ripeto da tempo, come un disco rotto che nessuno ascolta, che in un momento di sospensione dei nostri diritti costituzionali – quelli veri – la “privacy” è l’ultimo dei nostri problemi. Ciononostante, molti sostenitori di un concetto estremo di “privacy” continuano ad opporsi all’identificazione generale e generalizzata di contagiati e persone che ci sono entrate in contatto perchè lo Stato “potrebbe abusarne”.Dunque, costoro sono disposti a condannare a morte certa un numero indefinito di persone (violando il loro diritto alla vita), costringendo i sopravvissuti a vivere in regime di autodetenzione (limitando la loro libertà di movimento) e vivendo di stenti perchè non più in grado di autosostentarsi (annullando il diritto al lavoro) o di fare impresa (cancellando la libertà di svolgere attività economica), e tutto in nome di un condizionale: “potrebbero abusare”.

Al netto degli spregiudicati “difensori della privacy” per i quali “difendere i diritti fondamentali” è soltanto un modo di ottenere visibilità, incarichi e prebende, quelli in buona fede che rimangono (non saprei dire quanti, peraltro), dovrebbero innanzi tutto domandarsi:

  • quali sono gli Stati che “potrebbero abusare” dei dati raccolti per limitare il contagio e cercare una cura? Facciamo nomi e cognomi perchè se è vero che di notte tutti i gatti sono neri, questo non ci esime dall’accendere la torcia della ragione e della conoscenza. L’Italia non è la Cina, non è uno stato di polizia e non lo diventerà. Usare il condizionale – “potrebbe” – è un atto di sfiducia non solo nelle nostre istituzioni, ma una confessione del nostro fallimento individuale perchè significa non avere fatto abbastanza per contribuire alla crescita della cultura della democrazia,
  • in che modo la Repubblica Italiana – la Repubblica Italiana non “gli Stati” – “potrebbe abusare” di questi dati? Dandoli ai ricercatori per capire come si diffonde il virus e con quale rapidità?
  • è nota la differenza fra “misure” da Stato di polizia e “Stato di polizia” propriamente detto? E’ una differenza non banale, che l’Italia ha già sperimentato durante gli Anni di piombo e che si è tradotta nell’adozione di leggi speciali (misure da Stato di polizia) che non hanno trasformato l’Italia in uno Stato di polizia.

Evidentemente, non sto proponendo un approccio di cieco fideismo hegeliano (o di qualche suo baffuto – o calvo – interprete del secolo scorso) basato sulla fiducia assoluta nello Stato infallibile che “sa cosa è giusto”.

Al contrario, specie in tempi di misure eccezionali ciò che conta è l’impegno diretto e collettivo nell’esercizio dei diritti di cittadinanza e dunque dei doveri di controllo sulle attività istituzionali. Tradotto: essere il “controllore dei controllanti”.

Una scelta del genere, però, significa – anzi, significherebbe –  impegno costante, esposizione pubblica e senso di appartenenza al sistema democratico o, detto in altri termini, assunzione personale del compito di contribuire alla tutela dei diritti fondamentali. Ma di fronte a un’opzione del genere, le risposte sono invariabilmente: E chi me lo fa fare? Perchè proprio io? Il problema “è ben altro”: è lo Stato che “potrebbe abusare”, questo è il problema!

Già, è lo Stato che “potrebbe abusare”. Questo è il problema.

Usare il condizionale per sostenere una tesi senza fornire elementi verificabili sulla probabilità che qualcosa possa accadere è un’operazione intellettualmente discutibile e metodologicamente scorretta perchè consente, letteralmente, di inventare un problema senza doversi preoccupare se si stia parlando di fantapolitica o di questioni concrete.

Quindi in nome di un innominato “principio di precauzione” si disegnano a proprio uso e consumo scenari apocalittici e distopici dove “gli Stati” “sanno tutto di noi” e via alla rincorsa alimentata da questa paranoia individuale a sfoggiare account Signal o Telegram, a rincorrere “applicazioni crittografiche” e a fare disobbedienza (in)civile contro metodi che salvano – e uso l’indicativo, non il condizionale – vite umane. O a sfoggiare ragionamenti degli dell’erudizione di un “Don Ferrante al contrario” per dimostrare che bisogna “bilanciare la raccolta dei dati con la privacy”. E perchè “con la privacy” e non con il diritto alla vita? O con quello al lavoro?  O con quello alla libertà? Chi lo ha detto che “la privacy” – un non diritto importato da una tradizione giuridica che non ci appartiene e che non brilla per “complessità di pensiero” – prevale su diritti veri, positivi e costituzionalizzati?

Pensateci, voi “difensori della privacy”, la prossima volta che occupandovi di queste materie vorrete utilizzare il condizionale al posto dell’indicativo presente.

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