COVID-19: inutilità della giustizia, disordine sociale, (ir)responsabilità dell’informazione

Dopo gli assalti ai supermercati e ai furgoni che trasportano alimenti, le cronache cominciano a documentare quello che qualsiasi persona con un minimo di esperienza del mondo criminale aveva intuito: l’aumento di reati contro i deboli, a danno di persone rimaste sole in casa o di quelle che, per loro sfortuna, la casa hanno dovuto abbandonarla perchè ricoverati in ospedale.

Astrattamente, codice penale e di procedura penale consentono senza alcun problema di indagare e punire i colpevoli. Ma in un momento come quello che stiamo vivendo, un minimo sguardo alla realtà ci dimostra che la repressione penale, semplicemente, non funziona perchè i suoi tempi sono incompatibili con le esigenze di oggi, che sono di prevenzione e non di repressione.

Anche se la giustizia non fosse – come invece è – sostanzialmente bloccata (ma questo è un altro discorso), fra acquisizione e trasmissione della notizia di reato, iscrizione nel registro delle notizie di reato, svolgimento delle indagini preliminari, dibattimento (magari preceduto dall’udienza preliminare per i reati più gravi) passa tanto di quel tempo da rendere innutile, dal punto di vista emergenziale, la repressione penale.

Discorso analogo vale per la giustizia civile che, ad ogni livello, ha sospeso i destini di persone, famiglie e imprese. Termini sospesi, udienze telematiche a macchia di leopardo, cause rinviate “a lungo”, assenza di informazioni sul fatto che questo blocco sia sfruttato, almeno, per abbattere l’arretrato delle cause pendenti scrivendo le sentenze di quei processi che oramai erano arrivati alla fase della decisione. Quando la macchina ripartirà, sarà ancora più rallentata di prima, se non vengono adottate – ora, a bocce ferme – delle riforme strutturali come per esempio la eliminazione delle udienze  dal processo civile salvo quelle di audizione dei testimoni (peraltro, adeguando la norma ad una prassi che dura da anni).

Sta di fatto che nessuno sembra preoccuparsi, o percepire la gravità di questo stato di “sospensione della giustizia” che legittima la commissione di abusi – dal rifiuto di onorare debiti “per colpa del virus” ad azioni più turpi di frode e violenza – proprio perchè chiunque percepisce l’inutilità, in emerenza, di un sistema per il quale il tempo non ha importanza, basta che, un giorno o l’altro, “giustizia sia fatta”.

I problemi di oggi sono, invece, due: pubblica sicurezza (cioè prevenzione) e ordine pubblico (cioè dissuasione dal provocare disordini e repressione di quelli che accadono).

Non si tratta, come dice rozzamente il giornalista inglese Peter Hitchens sul Daily Mail di essere tornati alle nostre origini dispotiche,  e di avere ridotto la popolazione in uno stato di schiavitù che a malapena consente di mettere piede in strada 1.

E’ certamente necessario un robusto esercizio dei poteri di polizia per tenere sotto controllo il territorio, ma è anche indispensabile adottare delle strategie intelligenti che allentino la pressione sui cittadini e dunque riducano l’insorgere di ulteriori problemi.

Ma quali dovrebbero essere queste strategie?

Innanzi tutto, l’attenuazione dell’ansia per il futuro. Ovviamente ignorare la realtà non la cambia e siamo tutti consapevoli che i danni provocati dal virus riguardano anche la sopravvivenza sociale oltre che fisica, un conto, però, è essere consapevoli della situazione, un altro è arrendersi.

Ho imparato, in questo senso, una grande lezione da un’azienda della provincia di Reggio Emilia per la quale lavoro. L’amministratore delegato mi telefona e mi chiede di predisporre dei contratti. Quando gli faccio notare che, tutto sommato, potremmo anche aspettare perchè tanto i tempi di ripresa non sono brevissimi, lui mi risponde: “avvocato, dobbiamo essere pronti per quando si ripartirà”. Queste parole mi hanno dato una frustata di consapevolezza e mi hanno scosso dal nichilismo diffuso dal quale ero stato – senza rendermene conto – contagiato.

Non si tratta, dunque, di promuovere “flash-mob virtuali”, di canticchiare sui balconi o appendere striscioni – per carità, tutto fa brodo quando si tratta di esorcizzare pacificamente un mostro contro il quale ci sono (ancora) poche difese – ma di trasmettere messaggi concreti: il telelavoro continuerà anche dopo l’emergenza, i parametri sulla base dei quali progettare la sanità metteranno al primo posto la tutela del cittadino e non il numero dei posti letto da tagliare, saranno ridotti gli oneri per le esportazioni, e sarà incentivato l’arrivo di capitali e imprese straniere.

La gestione di una emergenza, in altri termini, si nutre di speranza, perchè è la speranza che spinge le persone a “tenere duro”. C’è dunque da sperare che le scelte politiche del momento, basate sul tradizionale “quattro soldi a tutti quanti, evasori compresi” siano affiancate da una visione di maggiore profondità che fornisca, certo, risposte immediate, ma anche prospettive concrete per il futuro.

Nello stesso tempo, e proprio per questo, è necessario intervenire sul comportamento spregiudicato di quei media che, con la scusa di “informare”, fomentano ansia e confusione.

Fake news a parte, che oramai come dei batteri si sono permanentemente installate nell’organismo dei social network, si sta manifestando con sempre maggiore consistenza il ruolo negativo incarnato dalla informazione “professionale” e dall’intrattenimento.

Nonostante l’invito – che nulla più di questo poteva essere – dell’Autorità per le comunicazioni a parlare del COVID-19 facendo ricorso a fonti autorevoli, infatti, si moltiplicano le trasmissioni televisive nelle quali vengono forniti dati inattendibili o alimentati dibattiti il cui unico scopo è la polemica.

Qualche esempio: un noto giornalista calcola il tasso di letalità del virus dividendo il numero di contagiati rilevati per il numero dei deceduti calcolando così la “media” dei decessi, in un talk show di informazione, a parlare del virus ci sono un notista politico e un giornalista del mondo dell’intrattenimento, mentre in una trasmissione di intrattenimento un politico si rifiuta testardamente di accettare il dato scientifico – fornito da un addetto ai lavori – della differenza fra il COVID-19 e il virus ingegnerizzato nel 2015 di cui ha parlato, all’epoca, una puntata di TG Leonardo.

Gli esempi potrebbero continuare a lungo, ma il tema è chiaro: anche la cosiddetta informazione professionale si trattiene con difficoltà dal fomentare morbosità e allarmismo e amplifica l’egoismo della parte peggiore di questo Paese. Non ho dati per quantificare il numero delle persone potenzialmente pericolose o la portata dei potenziali disordini ma, almeno per ora, il vaso di Pandora non è ancora stato (completamente) aperto. Siamo dunque ancora in tempo per impedire che questo accada, se anche il sistema dell’informazione decide – seriamente – di fare la sua parte.

Il rischio è che in nome dell’emergenza, dopo la libertà di circolazione, quella di riunione, di impresa e di educazione, anche quella di espressione subisca una stretta (peraltro – come detto – già larvatamente annunciata) per esempio con l’inasprimento delle pene del reato previsto dall’articol 656 del codice penale 2 e/o la creazione di sanzioni amministrative immediatamente esecutive.

Questo creerebbe l’ennesimo strappo costituzionale (dopo quello provocato dalle Regioni e mal-ricucito dal decreto-legge del 25 marzo 2020 e dal decreto del TAR Campania del 18 marzo 2020) perchè tirare una linea fra libertà di stampa (cioè, di informazione) e censura è una cosa molto difficile, che richiederebbe l’intervento di un tribunale.

Meglio, dunque, non arrivare a questo punto perchè se si dovesse andare a bussare alle porte della Giustizia per chiedere il rispetto della Legge ci si troverebbe di fronte al cartello “Chiuso per virus”.

  1. La traduzione esatta del passaggio “Perhaps we will emulate the French or Italian states, which have returned to their despotic origins and reduced their populations to a sort of cowering serfdom, barely able to step into the street” è: Forse faremo come Francia e Italia che sono tornate alle loro origini dispotiche e hanno ridotto le loro popolazioni a una sorta di schiavo rannicchiato, a malapena in grado di mettere piede in strada.
  2. Pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico

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