Bitcoin, Facebook e intelligenza “artificiale”. Il vuoto non è normativo, ma intellettuale

“C’è un vuoto normativo!”

Questa à la frase che nel corso degli anni è stata utilizzata da politici ignoranti, giornalisti impreparati e lorodicenti “esperti” per creare a tavolino “nuovi” problemi, invocare o giustificare “nuove leggi” per poi proporsi come “salvatori della patria”.

Questi spregiudicati untori ignorano, o fanno finta di ignorare che il problema delle norme sulla tecnologia è quello di abolirne un gran numero, invece che di emanarne di nuove.

Bitcoin – e le criptovalute – non sono un fenomeno nuovo e sono ben inquadrabili in un consolidato schema giuridico.

Le questioni relative all’e-commerce sono studiate da sempre nell’ambito dei contratti a distanza e del diritto privato internazionale. Se proprio si deve legiferare, si dia seguito al ddl Musso in tema di clausole vessatorie e valore del click, giacente in Parlamento dal 2009 recependo normativamente le indicazioni della sentenza della Corte di giustizia UE C-322/14.

I criteri per stabilire la responsabilità di chi gestisce una piattaforma di social networking sono stati stabiliti dal tribunale di Roma nel 1998.

Lo “hate speech” è già coperto dalla Legge Mancino.

Il Codice della proprietà intellettuale e industriale già prevede tutele per le uniche informazioni che ha senso proteggere, quelle riservate (ma anche il Codice penale sanziona la violazione del segreto industriale e commerciale).

La privacy (quella vera) è già protetta dal Codice penale e in particolare dall’articolo 615 bis del Codice penale. Che, a tutto voler concedere, sarebbe potuto essere modificato inserendo – fra le modalità di intrusione nella vita privata – anche il trattamento illecito di dati personali.

I “danni” provocati dal mal-trattamento dei dati personali sono certamente risarcibili ai sensi dell’articolo 2043 del Codice civile, ma amche ai sensi dall’articolo 2050.. Invece di approvare – senza copertura comunitaria – la Legge 675/96 e poi il Codice dei dati personali, sarebbe bastato esplicitare (come pure è fatto nelle norme in questione) l’applicabilità della prova diabolica al trattamento dei dati personali. Questo ci avrebbe risparmiato gli oltre vent’anni di follie e spese inutili,  oltre che il caos annunciato dal GDPR.

Anche i “danni” provocati dalla “intelligenza artificiale” sono coperti  dall’articolo 2050 del Codice civile. Se proprio si vuole modificare – modificare, non creare – qualcosa, si dovrebbe intervenire sulla Direttiva 2006/42 ed estenderne l’applicazione alle componenti software di una macchina o di una quasi macchina.

I “reati informaticinon esistono. Esistono modalità di lesione di beni giuridici protetti, fra i quali sarebbe stato necessario – e nessuno lo ha ancora fatto – includere esplicitamente a livello costituzionale l’informazione e nel Codice penale una norma di collegamento che equiparasse – come si fece per l’energia elettrica – l’informazione alla cosa mobile. Questo avrebbe automaticamente reso possibile l’applicazione (pur con qualche problema interpretativo) delle norme sul furto, sul danneggiamento e via discorrendo.

Allo stesso modo, in materia di diritto d’autore, è del tutto irrilevante che una duplicazione o uno sfruttamento non autorizzati di un’opera protetta avvengano tramite la vendita di supporti oppure online. Si tratta soltanto di modalità di lesione diverse che consentono in ogni caso l’applicazione della norma sostanziale.

Ma se, in un conato di onestà intellettuale, togliessimo dall’arsenale retorico degli “esperti”  queste armi dì grosso calibro, non rimarrebbe loro che gingillarsi con qualche pistoletta a molla.

Roba da bambini, mica da seri conferenzieri e opinion maker…

Appunto.

 

 

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