Chi è il padrone del rumore?

Se è intuitivo che un “campione” di musica possa essere protetto giuridicamente, non è così per la creazione del modello virtuale di un microfono o di un amplificatore.
di Andrea Monti – Le regole della musica – Audioreview maggio 2017
Nell’articolo pubblicato sullo scorso numero di Audioreview, riflettendo sull’impatto che la tecnologia digitale ha avuto sulla creazione e sulla produzione di musica, ho scritto del diverso significato che la parola “sample” assume in questo contesto.

Ho distinto il “campione” inteso come riproduzione atomica di un pezzo (un riff, una sequenza ritmica) da usare all’interno di un altro pezzo, dal “campione” inteso come (per esempio) registrazione delle singole note di un particolare strumento (eventualmente) suonato da un particolare musicista in modo da riprodurne “tocco”, dinamica e feeling.

Nell’ambito di questo discorso ho anche accennato fugacemente anche al tema degli amplificatori virtuali, che pongono interrogativi giuridici alquanto diversi da quelli di cui ho scritto in precedenza e che analizzo con maggiore dettaglio in questo numero.

Come sempre, per capire le questioni di diritto è necessario partire dal dato tecnologico e dunque è importante comprendere, anche se a grandi linee, la differenza fra campionamento e modellazione.

Il campionamento del suono di uno strumento non è diverso da quello che avviene quando si registra in digitale: il registratore “congela” una certa quantità di informazioni (ad esempio, 24 bit) un certo numero di volte al secondo (ad esempio, 96.000). Solo che nel caso del pezzo musicale viene registrata l’intera esecuzione, mentre nel caso dello strumento viene catturata la singola nota. Il file audio risultante verrà poi inserito in una library (biblioteca) di suoni che un controller (tipicamente – ma non necessariamente – una tastiera) potrà gestire e riprodurre.

La modellazione di un suono – nella specie, di un amplificatore o di un microfono – è invece un processo di analisi che produce formule matematiche da “tradurre” in un software che possa essere interpretato da un Digital Signal Processor (DSP). Il risultato è una estrema flessibilità di utilizzo, perché il DSP non deve riprodurre, come nel caso dei campioni, un suono precostituito ma deve “crearlo” sulla base delle istruzioni impartite dal software e dunque dal musicista.

Ora, venendo agli aspetti giuridici, mentre quando si parla di campioni è abbastanza intuitivo capire che se registro un bending di Mark Knopfler il suono del quale mi sto appropriando è a tutti gli effetti una sua creazione, quando parliamo di modellazione le cose non sono così semplici.

Virtualizzare il suono di un amplificatore, infatti, non lede il diritto d’autore di nessuno.

Se per eseguire una cover di Trumpled Underfoot, utilizzo il plug-in che associa alla traccia dry della mia Gibson Les Paul il suono di un Marshall JCM 800 virtualizzato, l’unica cosa che devo ricordarmi di fare è pagare la SIAE. Nè i Led Zeppelin, nè chi detiene i diritti sui loro pezzi potrà accusarmi di “suonare” (nel senso di avere lo stesso suono) come Jimmy Page.

Certo, rimane sempre in piedi la possibilità di ottenere una tutela indiretta del suono tramite l’esercizio del diritto sul marchio: nessuno, tranne Marshall, puà utilizzare commercialmente il nome del prodotto. Dunque, anche se il mio amplificatore virtuale “suona” come un Marshall non potrò dirlo chiaramente. Magra consolazione, tuttavia, perchè è vero che, ad esempio, Line6 (produttore dei migliori amplificatori virtuali) evita accuratamente di utilizzare nomi e marchi protetti dalla legge. Ma è vero pure che non ci vuole molto a capire che se un oggetto si chiama ClassA 15 stiamo parlando di un Vox AC-15 (specie perché la Model Gallery di Line6 cita espressamente il riferimento).

A meno che, dunque, i produttori di amplificatori e di strumenti non seguano la strada aperta da protagonisti del mondo dei motori come Ferrari, Ducati e Harley Davidson che hanno brevettato il rumore… pardon, il suono dei loro motori, rimangono pochi margini per pensare a una tutela giuridica del modo in cui un amplificatore riproduce il segnale di linea generato dai magneti di una chitarra.

Ma perché la virtualizzazione degli amplificatori e dei microfoni dovrebbe rappresentare un problema? Alla fin fine siamo di fronte all’ennesimo tentativo di riprodurre digitalmente dei suoni analogici… nessun musicista serio utilizzerebbe “roba del genere” per incidere dei pezzi, preferendo senz’altro gli originali!

In realtà non è così perché il livello qualitativo dei modelli virtuali è molto elevato e consente a chi suona professionalmente di avere sempre a disposizione un arsenale che, diversamente, sarebbe impossibile portarsi dietro. Anche dal punto di vista della qualità della registrazione i modelli virtuali hanno degli innegabili vantaggi: consentono infatti di eliminare fin dall’inizio l’intrusione dell’ambiente nella traccia facilitando enormemente l’attività di post produzione.

La possibilità di ottenere gli stessi risultati acustici di un particolare amplificatore e di un microfono senza doverli acquistare, ma avvantaggiandosi delle loro qualità, pur non essendo una violazione del diritto d’autore, potrebbe dunque rilevare innanzi tutto come utilizzo abusivo di marchio e usurpazione di qualità.

Immaginiamo il booklet di un CD che, tacendo l’utilizzo di modelli virtuali, pubblicizzasse i pezzi con uno slogan del tipo: L’inimitabile suono di una Strato del ’69 accoppiata a un Fender Dual Showman, registrata con un Neumann U47!

Anche se l’effetto finale della registrazione fosse sostanzialmente indistinguibile da quella eseguita con gli strumenti fisici, rimarrebbe il fatto che la frase del nostro booklet veicolerebbe un messaggio incompleto e fuorviante. Lascerebbe, infatti, intendere che i pezzi abbiano un certo feeling derivante dall’uso di determinati oggetti, quando invece questo non è vero. Oltre ad essere ingannevole, una pubblicità del genere sarebbe anche una usurpazione di qualità perché per quanto un modello virtuale si approssimi al suo equivalente reale, è e rimane qualcosa di diverso.

Per capirlo, basta comparare la frase di prima, con questa: L’inimitabile suono di un software che simula una Strato del ’69 accoppiata a un plugin che emula un Fender Dual Showman, registrata con una copia virtuale di un Neumann U47! Non fa lo stesso effetto, vero?

E se la diversità fra realtà e virtualizzazione fosse tale da far suonare da schifo il pezzo che usa l’amplificatore software, il produttore di quello vero avrebbe anche la possibilità di agire per danni, avendo subito una lesione della propria immagine che verrebbe associata a una qualità inferiore rispetto a quella cui il mercato è abituato.

Dunque, per concludere, è possibile che non solo i pezzi in quanto tali ma anche i singoli elementi (strumenti, microfoni, amplificatori) che danno vita a un’emozione musicale possano essere protetti dalla legge. Ma bisogna evitare ad ogni costo di trasformare la tutela giuridica in un freno per l’evoluzione tecnologica che può contribuire a salvare importanti parti della nostra cultura musicale.

Pensate soltanto alla possibilità di “modellare” – conservandoli per sempre – il suono di uno Stradivari San Lorenzo o della Hermann Hauser che Segovia suonò dal 1937 al 1962. E alle conseguenze del divieto imposto da qualche “padrone del rumore”, che priverebbe non solo gli audiofili della possibilità di viaggiare indietro nel tempo, scoprendo suoni che, parafrasando il replicante di Blade Runner, voi umani non potreste immaginare.

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