Lobby. (Ancora) la mala informazione de Il Fatto Quotidiano su privacy e dati personali

Benarrivati alla nuova puntata de “I professionisti dell’informazione”.

Un articolo pubblicato da Il Fatto Quotidiano a frima di Chiara Brusini da conto della protesta dei dirigenti pubblici che si oppongono all’obbligo – fissato per legge – di rendere pubblici i loro patrimoni.

Come nel caso dell’articolo pubblicato nella rubrica Sport & Miliardi, oggetto del post di ieri, anche questo si trova nel posto sbagliato. Il termine “lobby” indica l’insieme dei metodi per influenzare decisioni e comportamenti di uomini politici, in nome – passatemi il gioco di parole – interessi di un gruppo di interesse. Nel caso descritto dal Brusini, invece, siamo semplicemente di fronte alla rivendicazione di un gruppo di dirigenti che – legittimamente o meno, questo lo dirà la magistratura – rifiutano di rispettare una legge dello Stato.

Nel merito della vicenda, l’articolo è strutturalmente sbagliato perché affronta il tema in termini di privacy e non di (legittimità o meno) del trattamento dei dati personali che, come oramai dovrebbe essere chiaro, sono due istituti del tutto diversi.

I termini della questione sono estremamente semplici:

  • a norma del (morituro) Codice dei dati personali i dati possono essere trattati legittimamente se c’è una norma che lo consente,
  • la normativa sulla trasparenza, che persegue un interesse di natura pubblica, e come tale sovraordinato a quello dell’individuo, prevede espressamente il trattamento (tramite pubblicazione) dei dati patrimoniali dei dirigenti,
  • il trattamento di questi dati è intrinsecamente corretto, perché persegue una finalità di interesse pubblico.

Quindi, la “privacy”, in questa vicenda, è invocata a sproposito.

Brusini, veniamo alla pars construens di questo post, avrebbe semmai potuto rilevare che “trasparenza” non implica “accesso indifferenziato” ai dati in questione, e che le amministrazioni potrebbero prevedere un meccanismo di autenticazione (magari SPID, così almeno servirebbe a qualcosa) per verificare “chi” accede a “cosa”. In questo modo sarebbero stati contemperati gli interessi dello Stato a garantire la trasparenza con quelli dei dirigenti a sapere chi – e perché – si è interessato alle loro consistenze patrimoniali (come peraltro prevede il Codice dei dati personali).

Brusini avrebbe anche potuto rilevare che l’indicazione del Garante relativa alla non pubblicabilità di dati sensibili è tecnicamente sbagliata. Se il dato sensibile è uno di quelli che ricadono nell’ambito della normativa sulla trasparenza, allora va pubblicato. Senza eccezioni.

Infine, Brusini avrebbe potuto evidenziare che se, in questo caso, di privacy si tratta, allora il contrasto normativo si sarebbe dovuto porre fra l’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani (che effettivamente tutela la privacy) e il Codice dei dati personali che legittima, invece di vietare, la pubblicazione dei dati patrimoniali dei dirigenti.

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