Terrorismo, propaganda e internet. La censura non è mai un’opzione

L’attentato di Parigi riapre – a pochi mesi dalla strage di Charlie Hebdo – la polemica sulla libertà in rete. Nella borsa dei diritti, scendono le quotazioni della privacy e salgono quelle del controllo totale… o totalitario?
di Andrea Monti – PC Professionale n. 297 10 dicembre 2015

Immancabilmente, di fronte a tragedie di matrice criminale o terroristica, nei politici scatta il riflesso condizionato che li porta a chiedere l’ennesimo “giro di vite” nell’uso della rete.
Questa attitudine si è manifestata anche nel caso della strage di Parigi, con una dichiarazione del Presidente della Camera Boldrini che, dopo avere tenuto a battesimo lo scorso luglio la (vuota e inutile) “Carta dei diritti di internet”, ora dichiara ai media che “…bisogna lavorare molto con l’intelligence. Bisogna riuscire a fare in modo che questi individui vengano individuati anche nelle attività del web. Il web oggi è una grande opportunità, ma può anche facilitare appunto tutto questo e quindi abbiamo bisogno di strumenti nuovi per vincere questa sfida.”
Benché in questa dichiarazione il Presidente della Camera non abbia esplicitamente auspicato l’emanazione di leggi repressive, leggendo fra le righe del suo discorso è difficile immaginare qualcosa di diverso. E d’altra parte, le recenti dichiarazioni del Presidente della Repubblica francese, Hollande, hanno già chiarito quale sia il percorso da seguire: leggi speciali e indebolimento delle garanzie per i cittadini.
Vista la straordinaria tendenza tutta italiana di “ispirarsi” a quanto fatto in altri paesi (non importa quali, basta che qualcuno abbia già fatto qualcosa da importare, per non assumersi il peso di una scelta originale), è altamente probabile che l’approccio francese trovi più di un sostenitore al di qua delle Alpi. E che, dunque, pure in Italia si cominci a pensare seriamente a un ridimensionamento delle libertà civili.
Come ho scritto sul numero precedente di PC Professionale, noi partiamo già avvantaggiati. In Italia la legge sulla sorveglianza globale c’è già, si chiama (paradossalmente) Codice dei dati personali e contiene un articolo, il numero 132, che formalmente limita temporalmente l’attività di raccolta dei dati di traffico telematico da parte degli ISP, ma nella sostanza la rende perfettamente legittima. E questo, anche se da oltre un anno la Corte di giustizia europea aveva annullato la direttiva comunitaria sulla conservazione dei dati di traffico (nota come “direttiva Frattini”, dal nome del politico italiano che la ha voluta).
Il disegno normativo che si intravede attraverso il velo delle dichiarazioni di politici ed esperti è quello che ritrae, da un lato, un rafforzamento delle norme sull’accumulazione dei dati e, dall’altro, delle norme che consentono l’oscuramento dei discorsi di incitazione all’odio. In altri termini, dunque, istituzionalizzazione della violazione indiscriminata della privacy e censura delle opinioni non ortodosse.
Ma cosa ha a che fare tutto questo con la lotta al terrorismo?
Se ci pensate un attimo, la risposta è: poco o nulla.
Fortunatamente, di terrorismo ne so poco o nulla (come peraltro molti degli “esperti” che in queste ore invadono schermi televisivi e pagine di giornali) ma qualcosa di legge pure capisco. E allora, analizzando queste proposte dalla prospettiva del diritto, rilevo che se l’obiettivo è evitare che vengano compiuti degli attentati, serve prevenzione (attività di intelligence) e non repressione (attività di polizia giudiziaria). La differenza fra i due ambiti è sostanziale: nel primo caso, l’operato dei servizi segreti non è destinato a finire davanti a un giudice, mentre nel secondo l’attività di polizia, carabinieri e guardia di finanza, si. Questo significa che le logiche operative dei due ambiti operativi sono molto diverse e dunque sbagliano i politici – non solo italiani – nel pensare che bisogna limitare i diritti dei cittadini normali, sottoponendoli a più controlli di polizia, invece di potenziare le attività dei servizi segreti ferme restando le garanzie per chi non ha fatto nulla di male.
Potrei dunque accettare una “sorveglianza globale” in nome del “bene superiore” se avessi la certezza che, da qualche parte, ci sia chi controlla i controllori e punisca chi abusa. E potrei anche arrivare ad accettare che si possano rimuovere affermazioni odiose e criminali se fossi sicuro di non alterare la libera formazione delle coscienze individuali.
Ma evidentemente le condizioni di cui parlo sono del tutto irrealistiche, e non è il caso di rischiare quello che resta del nostro sistema di diritti in nome di un’ambigua e ipocrita nozione di “prevenzione”. Come canta Caparezza, “In questa gabbia di matti, son tutti falchi”.
Dimenticavo, quanto ai terroristi, meglio che ci pensino gli incursori della Marina militare, o quelli del Col Moschin piuttosto che i webmaster.
A ciascuno il suo lavoro.

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