Alterare benchmark e performance degli smartphone è illegale

Asus, Samsung, LG e HTC sono stati accusati di avere alterato i risultati dei benchmark. Apple alterò il funzionamento del primo iphone durante la prima “uscita”. La prassi sarà anche diffusa, ma quanto è legale?
di Andrea Monti – PC Professionale n. 272

La notizia: AnandTech, un sito che propone recensioni di hardware, ha rilevato che diversi produttori di smartphone e tablet, fra i quali Asus, Samsung, LG e HTC hanno inserito nei sistemi operativi di alcuni loro prodotti delle porzioni di codice che alterano i risultati prodotti da app per il benchmarking. Tecnicamente, questo codice occulto funziona riconoscendo la presenza dell’app di benchmarking e overcloccka i processori facendoli girare a livelli che non sono quelli ordinari e che – presumibilmente – non possono essere sostenuti a lungo nell’uso ordinario senza prosciugare la batteria o provocare altri problemi. Il risultato, evidentemente, è che il consumatore è indotto a valutare l’appetibilità di uno smartphone sulla base di parametri formalmente corretti (il risultato del testo è, infatti, giusto perché il processore è effettivamente in grado di funzionare a velocità superiori) ma non presentati in modo altrettanto onesto. Non c’è niente di male a far vedere fino a dove può spingersi un processore, ma questo dovrebbe essere detto chiaramente, così come dovrebbe essere altrettanto chiaramente evidenziato che si tratta di dati riferiti a un modo di funzionare “estremo”, indicando anche gli effetti collaterali – se presenti – sulla durata della batteria e sulla funzionalità globale dell’apparato. Alzi la mano chi non ha mai avuto blocchi e altri inconvenienti smanettando con le frequenze delle CPU del proprio PC. Viceversa, la scelta del marketing di questi produttori è stata quella di dire solo una parte della verità, tacendo elementi importanti per consentire ai consumatori di compiere in modo informato le proprie scelte.

Da quanto è dato di capire, truccare i risultati è una prassi molto diffusa e praticata da molto tempo. Il New York Times, nell’edizione online del 4 ottobre 2013, pubblica un’intervista a Andy Grignon, uno degli ingegneri che fece parte del gruppo che presentò il primo iphone nel 2007, il quale candidamente confessa che non essendo lo smartphone ancora realmente pronto, venne programmato a basso livello per mostrare sempre tutte le tacche di ricezione del segnale cellulare, AT&T installò un ripetitore mobile all’interno del Moscone Center (dove si sarebbe svolta la presentazione) e che l’iphone venne usato eseguendo in uno specifico ordine le varie applicazioni in modo che non si imballasse. Morale: quello che al mondo è sembrato un prodotto maturo, era ancora un oggetto che richiedeva ancora seri interventi tecnici. Ma questo gli investitori del mondo finanziario non lo sapevano e il titolo guadagno, il giorno della presentazione, il 7% in borsa.
La fantasia del marketing, però, non si limita a interventi tecnici a basso livello, perché anche il modo di presentare le informazioni sui siti web istituzionali e sulle confezioni è in grado di alterare la percezione dell’utente.

Prendiamo il caso del neo uscito Nokia Lumia 1020. Dal punto di vista tecnico, questo smartphone “parla” con sistemi diversi da Windows in modo molto limitato. C’è un’applicazione per il trasferimento di contatti, foto e video per OS X, ma il calendario supporta, invece, solo ActiveSync (non, dunque, CalDav o WebDav). Il che lo rende praticamente inutile per chi, invece, dipende dalla disponibilità e dall’aggiornamento dei propri impegni e utilizza Google Calendar. Certo, ci sono sempre delle “pezze” per rimediare al problema. Si potrebbe semplicemente usare il servizio offerto da Live.it e “mollare” Google, si potrebbe eseguire la sincronizzazione a mano, spostando di volta in volta i file .ics da una piattaforma all’altra, o magari acquistare un’app che lo faccia per noi. Oppure ancora, è un gioco da ragazzi (si fa per dire), installare sui propri server la versione open source di Zimbra per Exchange. Ma tutto questo non lo si apprende né dalla confezione, né dalla presentazione del prodotto sul sito di Nokia, che si limita ad elencare le caratteristiche tecniche e a scrivere, sull’aspetto particolare della sincronizzazione, quanto segue: “Exchange ActiveSync, App Windows 8 Companion, Applicazione Mac companion, Nokia Photo Transfer per Mac”. Magari un utente adeguatamente esperto è in grado di capire cosa voglia dire quella sequenza di parole. Ma per buona parte degli esseri umani, si tratta di arabo o cinese, e ciò che “passa” è: “lo smartphone funziona anche con OSX o con Google Calendar” anche se non è esattamente così semplice raggiungere il risultato – posto, poi, che ci si riesca.

Ora, venendo all’analisi giuridica della situazione, il punto da chiarire è se i comportamenti descritti nelle righe precedenti siano soltanto eticamente scorretti o se, invece, possano costituire elemento di malafede contrattuale e/o pubblicità ingannevole.

In linea di principio, secondo l’art. 1337 del Codice civile le parti di un contratto hanno l’obbligo di comportarsi secondo buona fede e correttezza. In più, secondo il Codice del consumo, il consumatore ha diritto ad essere compiutamente informato delle caratteristiche del prodotto che intende acquistare. Se la controparte è “reticente”, ha ritenuto la Cassazione civile sezione III con la sentenza 08 ottobre 2008 n. 24795, si configura un caso di responsabilità pre-contrattuale.
Questo significa che è possibile fare causa direttamente ai produttori “smemorati” o “reticenti”? No, perché il consumatore ha come suo interlocutore obbligato chi gli ha venduto lo smartphone e non chi lo ha prodotto. Quindi l’azione dovrebbe prima essere iniziata contro il venditore sostenendo che egli non ha fornito adeguati chiarimenti prima dell’acquisto e poi eventualmente estesa da quest’ultimo verso l’importatore o il distributore e poi, ancora e finalmente, verso il produttore. Sintesi: costi legali iperbolici, incertezza giudiziaria e, infine, sensazione di essere stati presi in giro.

Certo, rimarrebbe da esplorare il campo della pubblicità ingannevole, e sarebbe interessante sapere cosa ne pensa l’Antitrust e cosa dice la Consob, per quanto attiene alla diffusione di notizie che incidono sull’andamento dei titoli quotati.

Forse, fra vent’anni…

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