Cass. Sez.VI Penale Sent. 21206/01

(Presidente P. Trojano – Relatore G. Ambrosini
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Bologna con ordinanza 4.12.2000 annullava l’ordinanza 21.10.2000 del G.I.P. del Tribunale di Modena applicativa degli arresti domiciliari a G. R. limitatamente al reato di cui all’art.416 c.p. e la confermava relativamente ai reati di cui agli artt.3 e 4 L.20.2.1958 n.75.
“Medio tempore” – tra l’ordinanza applicativa della misura cautelare (21.10.2000) e la decisione di annullamento parziale relativa al solo reato associativo (4.12.2000) – con ordinanza 20.11.2000 il G.I.P. disponeva la liberazione del G. per tutti i reati contestatigli, essendo venute meno le esigenze cautelari relative all’inquinamento probatorio.
Il G., secondo l’originaria accusa, era indagato:
a) di concorso esterno nell’associazione diretta all’agevolazione all’ingresso clandestino di stranieri nel territorio nazionale, di riduzione in schiavitù, di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione e altri reati, per le consulenze prestate (oltre l’attività professionale legale), agli associati ad essa;
b) di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione di C. F., per aver fatto da mediatore per l’acquisto di un immobile che i suoi mandanti (i fratelli G. S. e G. S.), sfruttatori della donna, intendevano destinare all’esercizio del suo meretricio, e per aver consigliato agli stessi sfruttatori di far allontanare temporaneamente la donna dalla città, perché raggiunta da foglio di via obbligatorio (con relativa espulsione dallo Stato).
L’ordinanza impugnata respinge preliminarmente l’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche in quanto estranee all’attività professionale del G. e comunque effettuate sull’utenza del suo interlocutore, l’indagato G. S.
Per quanto concerne il concorso esterno nel reato associativo esclude la sufficienza di indizi nel senso che gli apporti professionali dati a ciascun associato non consentono di verificare un comportamento unitario volto a favorire la struttura criminale.
Per quanto concerne i reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione fonda gli indizi essenzialmente sul tenore delle telefonate intercettate.
Ricorre il P.M. per manifesta contraddittorietà e illogicità dell’ordinanza e violazione dell’art.416 c.p. per quanto concerne l’elemento soggettivo del reato.
Ricorre la difesa dell’indagato, ai soli fini di cui all’art.314 c.p.p., per violazione di legge essendo stata esclusa dal Tribunale la rilevanza di fatti sopravvenuti e non essendosi valutato, una volta escluso il reato associativo, il permanere di esigenze cautelari; per violazione degli artt.103, c.5, e 271, c.2, c.p.p. in relazione alle intercettazioni telefoniche; per mancanza di motivazione in ordine ai sufficienti indizi di colpevolezza; per violazione dell’art.104, c.4, c.p.p. in relazione al divieto di comunicare con il difensore.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso del P.M. è inammissibile.
Il ricorso, infatti, è predisposto al fine di ottenere l’annullamento di un provvedimento del Tribunale del riesame che esclude l’esistenza di sufficienti indizi di colpevolezza a carico dell’indagato in ordine al concorso esterno nel reato di associazione per delinquere, con la conseguenza necessaria (in caso di accoglimento) del ripristino della misura cautelare precedentemente applicata.
Ancor prima del provvedimento del Tribunale, i gip ha statuito essere venute meno le esigenze cautelari connesse al pericolo di inquinamento probatorio, e la decisione non è stata impugnata dal PM.
Si deve, quindi, applicare la regola secondo cui il ricorso del PM, avente ad oggetto l’ordinanza con la quale il Tribunale del riesame ha revocato la misura coercitiva disposta dal gip e non anche il provvedimento con cui successivamente quest’ultimo giudice revocava il proprio atto cautelare personale, configura un’ipotesi di carenza di interesse all’impugnazione; vi osta, infatti, la particolare disciplina della cosa giudicata formatasi nella materia de qua (Cass. Sez. II, 17/1/1994, Delfino).
In sostanza, avendo il PM fatto acquiescenza alla revoca della misura degli arresti domiciliari, disposta dallo stesso gip che l’aveva emanata, nei confronti del G. per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, non può poi lo stesso PM dolersi della revoca di tale misura disposta successivamente dal Tribunale in sede di riesame richiedendo che essa deve essere confermata per il permanere degli indizi di colpevolezza.
Per quanto concerne il ricorso proposto nell’interesse dell’indagato il problema appare più articolato, essendo le doglianze finalizzate al solo scopo dell’applicazione dell’art. 314 c.p.p., e quindi sussistendo obiettivamente l’interesse al ricorso nonostante l’intervenuta revoca medio tempore della misura cautelare in relazione a tutte le originarie imputazioni.
Il tema non può riguardare sicuramente i sufficienti indizi di colpevolezza in ordine al reato associativo, poiché su questo punto (a prescindere dalla precedente revoca della misura cautelare da parte del gip) l’ordinanza impugnata ha affermato la loro insussistenza il che comporta, come conseguenza necessaria, l’esclusione dell’applicabilità della misura cautelare.
Al proposito non si comprende la doglianza difensiva poiché, rispetto alla finalità di cui all’art. 314 c.p.p. che essa si propone, non è l’intervenuta revoca della misura cautelare da parte del gip per motivi attinenti alle esigenze di tutela del materiale indiziario acquisito che rileva, quanto la decisione del Tribunale che esclude l’adeguatezza di detto materiale ai fini indiziari e conseguenzialmente elimina la misura cautelare relativa al reato associativo.
Sul punto la difesa dell’indagato ha già ottenuto il risultato che si prefiggeva, e nulla può aggiungere questa Corte nel suo odierno giudizio stante la dichiarata inammissibilità del ricorso del PM.
Rilevano, invece, per puntualizzare la sussistenza o meno degli indizi di colpevolezza in ordine al secondo reato (favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione), le modalità di acquisizione probatoria.
Tali acquisizioni consistono essenzialmente (oltre gli esiti di servizi di osservazione e appostamento e la documentazione cartacea acquisita) in intercettazioni telefoniche, operate non sull’utenza del G., persona esercente la professione legale e perciò assistita dalle garanzie dettate dall’art. 103 c.p.p. e dalle norme ad esso collegate (in tema di ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni di conversazioni o comunicazioni), ma sull’utenza del terzo indagato (G. S.) che interloquiva con il professionista.
La regola generale nella materia è stata enunciata da questa Suprema Corte (sez. un. 12/11/1993, Grollino, RV 195628) nel senso che il divieto di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni dei difensori opera anche nel caso in cui l’attività difensiva concerna un procedimento diverso da quello in cui è disposta l’intercettazione.
Esso no riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi abbia la qualità di difensore e per il solo fatto di tale qualifica, bensì solo le conversazioni che attengono la funzione difensiva (in quanto tali attinenti al segreto professionale, che costituisce il bene tutelato dalle norme processuali).
Alla luce di questa decisione si deve escludere che l’utenza telefonica del difensore debba considerarsi in assoluto intangibile, sia che le telefonate muovano dal suo numero (sottoposto a specifico controllo), sia che il suo numero (non direttamente controllato) sia destinatario di telefonate promesse da terzi la cui utenza è legittimamente controllata.
Nello stesso senso si è già espressa questa sezione della Suprema Corte (2/11/1998 RV 213451) affermando che l’art. 103, c. 5, c.p.p. nel vietare le intercettazioni o comunicazioni dei difensori, mirando a garantire l’esercizio del diritto di difesa, ha ad oggetto le conversazioni o comunicazioni relative agli affari nei quali i legali esercitano la loro attività difensiva, e non si estende, quindi, a tutte le conversazioni che si effettuino nel domicilio del difensore indipendentemente dal loro nesso con la funzione esercitata ne a quelle conversazioni che integrino esse stesse reato.
L’attenzione si sposta pertanto dalla intercettazione telefonica in quanto tale, avente nel caso come oggetto l’utenza di un indagato e non quella del suo professionista e non essendo destinata a controllare specificamente le comunicazioni fra lo stesso indagato e il professionista (perciò obiettivamente legittima perché non effettuata in violazione dell’art. 103, c. 5, c.p.p., al contenuto delle comunicazioni intercettate.
Ciò al fine di verificare se queste comunicazioni (o conversazioni) abbiano ad oggetto temi difensivi come tali in suscettibili di controllo, perché garantiti dal segreto professionale.
In ultima analisi, sulla base di un giudizio ex ante, l’intercettazione telefonica di cui si tratta non appare effettuata al di fuori della rigorosa disciplina posta a tutela del segreto professionale degli esercenti la funzione di difensore, onde no è ravvisabile la sanzione di inutilizzabilità ex art. 217, c. 1, c.p.p.
Resta da verificare, sulla base di un giudizio ex post, quali fra le conversazioni intercettate siano eventualmente utilizzabili sul piano indiziario in quanto esorbitanti dalla sfera tipica dell’attività difensiva.
La residua imputazione a carico del G. di concorso nel reato di favoreggiamento e di sfruttamento della prostituzione di C. F., in ordine alla quale l’ordinanza del Tribunale di Bologna oggetto di impugnazione ha ritenuto la sussistenza degli indizi di colpevolezza, e incentrata su due specifiche condotte.
La prima di esse riguarda l’avere operato in veste di mediatore nell’acquisto di un immobile che i suoi referenti (i fratelli G.) intendevano mettere a disposizione della C. per esercitarvi il meretricio.
E’ fuor di dubbio che l’attività relativa alla stipulazione del contratto di compravendita di un immobile, ivi compresa la fase preliminare circa la trattativa sul prezzo anche recandosi di persona presso l’agenzia immobiliare mediatrice, costituisca comportamento che può rientrare nell’ordinaria attività stragiudiziale dell’avvocato.
Come legittima è la stessa attività quando sussista la colpevolezza che l’immobile sarà intestato a persona diversa (la C.) rispetto agli effettivi acquirenti (i fratelli G.).
Fin qui l’operazione, da un punto di vista formale, appare ineccepibile: l’avv. G., di cui sono clienti per varie pratiche i fratelli G., presta la sua attività professionale per la stipulazione di un contratto di compravendita, di cui beneficerà una terza persona, la C..
Le telefonate fra il professionista e i suoi clienti, se limitate a questo ambito, non sono utilizzabili processualmente perché rientrano sotto la tutela del segreto professionale.
Altro e diverso è il discorso per quanto concerne una serie di attività parallele di consulenza prestata dal legale, ed evidenziate dall’ordinanza impugnata.
In particolare: il prestarsi ad un’operazione commerciale nella consapevolezza della provenienza illecita del denaro (provento della prostituzione della C., la cui qualità nota al legale); il favorire la finalità illecita della stessa operazione (destinare l’immobile all’esercizio della prostituzione della C.); il suggerire artifici per far apparire come legittima una domiciliazione (della C.) in Modena per sfuggire ai controlli di polizia circa l’esercizio della sua prostituzione.
In ordine a tali circostanze, poste a fondamento dell’ordinanza impugnata, il controllo di legittimità da parte di questa Corte deve limitarsi alla verifica della sussistenza della motivazione e della sua logicità, non potendo entrare nel merito della motivazione degli indizi come intesi dal giudice di fatto.
L’esistenza della motivazione appare fuori discussione; quanto ala sua logicità non si evidenziano incongruità ne contraddizioni, essendo l’ordinanza mirata a verificare il contributo fattivo del legale non già nell’operazione commerciale in se, o astrattamente intesa, ma nelle finalità illecite che presiedono ad essa e che emergono dalle intercettazioni telefoniche.
A questo punto si pone una questione di indubbia delicatezza, ovvero quella della scindibilità o meno fra la parte delle conversazioni intercettate rientranti nell’ambito della tipica attività professionale (tutela del segreto) e la parte di esse estranee alla professionalità perché costituenti reato.
Sembra a questa Corte che non sia sufficiente limitarsi ad affermare la neutralità di un contratto in quanto tale, ma sia nel contempo lecito verificare la finalizzazione del contratto stesso rispetto ad attività illecite e l’apporto causale della consulenza alla realizzazione delle predette finalità: una consulenza che, non per l’oggetto materiale dell’attività professionale (l’assistenza nella compravendita), ma per il risultato cui mira, costituisce essa stessa illecito (il concorso in favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione).
In altre parole, utilizzare il proprio bagagli di conoscenze tecniche per consentire, per far commettere o per commettere in concorso un reato, rientra in una sfera che esula dall’attività tipicamente professionale, onde le relative conversazioni non appaiono suscettibili di essere assorbite sotto la tutela del segreto professionale.
Poste queste premesse l’esame della seconda delle condotte addebitate al G. non richiede ampio discorso.
Si contesta all’indagato di avere suggerito o consigliato ai propri assistiti (i fratelli G.), indagati tra l’altro per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione della C., colpita da provvedimento di foglio di via obbligatorio, di allontanare la donna dai marciapiedi cittadini per il tempo necessario alla presentazione del ricorso avverso il detto provvedimento.
Il consiglio, in questo caso, non viene rivolto direttamente alla propria cliente, bensì a soggetti che, sotto un profilo formale, appaiono estranei all’eventuale rapporto professionale tra il G. e la C..
E poiché tale consiglio, come evidenziato nell’ordinanza impugnata, ha l’indubbio significato di consentire ai G. di perseguire la loro attività illecita, si tratta di una consulenza non protetta dalle processuali in tema di segreto professionale relativo alle intercettazioni telefoniche.
La configurabilità a livello indiziario di concorso in favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione non può essere disconosciuto, posto che l’ordinanza da ampia contezza della conoscenza da arte del professionista dell’attività svolta dalla donna e del ruolo dei suoi interlocutori.
Per quanto concerne le esigenze cautelari appare inesatto il rilievo difensivo secondo cui la misura cautelare disposta dal gip avesse ad oggetto il solo reato associativo, risultando per tabulas che essa riguardava entrambi i reati contestati dall’indagato.
D’altra parte, in relazione alle stesse esigenze cautelari relative al solo reato di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, è esente da censura il rilievo dell’ordinanza impugnata secondo cui, essendo intervenuta medio tempore la revoca della misura cautelare l’impugnazione avverso detta misura, benché finalizzata esclusivamente in relazione all’art. 314 c.p.p., non poteva che limitarsi alla verifica dei soli sufficienti indizi di colpevolezza.
L’intervenuta liberazione dell’indagato, infatti, restringeva condizioni previste dall’art. 280 c.p.p. (ossia che si trattasse di reato per cui la misura è applicabile) e dall’art. 273 c.p.p. (ossia che fossero verificati i sufficienti indizi di colpevolezza).
La non attualità della limitazione della libertà personale, infatti, inibiva l’esame del tema a differenza di quello dei sufficienti indizi di colpevolezza, posto che l’intervenuta revoca della misura riguardava esclusivamente le esigenze cautelari (nella specie il pericolo di inquinamento probatorio) e non modificava il quadro relativo agli indizi di colpevolezza.
Analogamente vi è carenza di interesse in ordine all’ultimo motivo difensivo concernente la violazione dell’art. 104 c.p.p. per essere stato vietato all’indagato agli arresti domiciliari di conferire con il difensore.
Infatti, il venir meno della misura limitativa della libertà personale priva di attualità la doglianza.
Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
PER QUESTI MOTIVI
Dichiara inammissibile il ricorso del PM per sopravvenuta carenza di interesse; rigetta il ricorso di G. R. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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