C. App. Torino Sez. IV penale Sent. 5906/00

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte d’Appello di Torino
IV Sezione Penale

Composta dagli illustrissimi Signori

1) Dott. Gustavo Witzel – Presidente Relatore
2) Dott. Francesco Scisciot – Consigliere
3) Dott. Virginia Borgani – ”
HA PRONUNCIATO LA SEGUENTE

SENTENZA

CONTRO

C. F. nato a __________ il _________residente e con d.d. ivi Corso __________; elett. domiciliato presso il difensore avv. Daniele Coliva del Foro di Bologna;
– libero, presente-

IMPUTATO IN PRIMO GRADO

a) del reato di cui all’art. 648 c.p. perché, al fine di trarne profitto, acquistava o comunque riceveva da ignoti, consapevole della loro provenienza delittuosa, programmi per elaboratore abusivamente duplicati provento del delitto di cui agli artt. 171 e 171-bis L. 633/41, contenuti in n.20 scatole di floppy disk, supporti per elaboratore a lui sequestrati per un valore commerciale di L.32.177.600, come elencati nell’allegato a)del decreto di citazione.
Accertato in Torino il 13.9.95.

b)del reato di cui all’art .8l cpv. c.p., 171 e 171-bis, comma 1°, prima e seconda parte, come introdotto dall’art. 10 D. Lgs. 518/92, L. 633/41 per aver abusivamente duplicato con più atti esecutivi del un medesimo disegno criminoso, a fini di lucro, i programmi per elaboratore contenuti sei floppy disk di cui all’allegato del decreto di citazione.
Con l’aggravante dì aver commesso il fatto su programmi precedentemente contrasseganti dalla Società Italiana degli Autori ed Editori ai sensi della L. 633/41 e successive modificazioni.
Reato commesso in Torino dal 1992 fino al 13.1.93 con riguardo all’ipotesi di cui all’art. 171 L.633/41 e da quella data alla data di accertamento dei fatti del 13/9/95 per il reato di cui all’art. 171 bis L. 633/41.

A P P E L L A N T E

Avverso la Sentenza del Tribunale di Torino del 29/6/99 la quale;
Visti gli artt. 533 e segg. c.p.p.
dichiarava l’impuato respensabile-del reato-sub b relativamente ai programmi After Dark Screen Saver, Dos 6.0 aggiornamento, Harrier Jump Jet Lemmings II, Mistery, Photo Edge Photo CD, Syndicate V.21.14, X-Wing e, esclusa l’aggravante contestata e riconosciute e attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi due di reclusione e Lire 1.000.000 di multa, sostituita la pena detentiva ex art. 53 L. 689/81 con la pena pecuniaria di Lire 6.750.000. Non menzione della condanna.
Condannava l’imputato al pagamento delle spese processuali.
Disponeva la pubblicazione della condanna per estratto e una volta sul giornale “L’incontro” di Torino e sul periodico “PC Magazine”.
Visto l’art. 530 c.p.p.,
assolveva l’imputato dai restanti reati perché il fatto non sussiste.
Ordinava la confisca e la distruzione dei programmi citati.
Visti gli artt. 538 e segg. c.p.p.,
condannava l’imputato al risarcimento dei danni subiti dalla costituita parte civile da liquidarsi in separata sede, nonché a rifondere alla stessa le spese del processo, che liquidava in complessive Lire 3.790.000, oltre a spese forfettarie, I.V.A. e C.P.A.

PARTE CIVILE=
S.I.A.E. dom.ta elett.te c/o AVV. M. Mandel – ROMA e c/o AVV. R. Capelletto – TO entrambi dom.ti c/o S.I.A.E. – Torino C/so Stati Uniti n. 22;

RITENUTO IN FATTO E DIRITTO:

Il 13.9.95 la Guardia di Finanza perquisiva l’abitazione in Torino di C. F. e rinveniva numerosi floppy disk contenenti programmi per elaboratore; non avendo il predetto esibito fatture d’acquisto degli stessi, li sequestrava.
In sede di indagini preliminari il consulente del P.M., ing. Giriodi, accertava che i programmi, non essendo contenuti su supporti originali e non essendo accompagnati da licenze d’uso e fatture d’acquisto, dovevano ritenersi abusivamente duplicati.
Il CROCE veniva citato a giudizio per rispondere dei reati sopra rubricati.
Nel dibattimento davanti al Tribunale (in composizione monocratica) di Torino,

– si costituiva parte civile la SIAE,
– venivano sentiti i verbalizzanti su quanto emerso in sede di perquisizione e sequestro;

– il teste a difesa B. riferiva che l’imputato svolgeva attività sistemistica e tecnica relativa a software aziendale presso la società S., possedeva presso la propria abitazione un computer contenente una banca dati cui potevano accedere gli utenti della rete informatica Fidonet, ma nella banca dati predetta. non erano inseriti i programmi di cui ai capi d’imputazione,

– il teste a difesa F. riferiva di avere un negozio di prodotti per l’informatica, di aver venduto all’imputato alcuni programmi muniti di regolare licenza d’uso, per i quali aveva rilasciato scontrini fiscali;

– il consulente del P.M confermava quanto accertato, precisando che i floppy disk avrebbero potuto, in astratto, essere copie di backup, cioè di riserva per il caso di malfunzionamento degli originali, ma in concreto ciò era da escludere a causa del mancato possesso degli originali da parte del prevenuto;

– l’imputato dichiarava che si trattava di duplicazioni, da lui eseguite, di programmi originati che in parte egli stesso aveva posseduto e, in altra parte, aveva avuto in dotazione presso il proprio datore di lavoro; chiariva, a contestazione del P.M., che in tal secondo senso aveva inizialmente parlato di programmi ricevuti in prestito, e che, per il timore di ripercussioni pregiudizievoli qualora avesse coinvolto la società presso cui lavorava, inizialmente aveva detto di non essere in grado di fornire le generalità delle persone che gli avevano prestato i programmi originali: ad ulteriore contestazione del P.M., dichiarava di non ricordare se aveva avuto anche da terzi programmi originali da copiare, essendo fatti risalenti all’inizio degli anni ’90;

– l’imputato, inoltre, metteva a disposizione un certo numero di originali posseduti;

– il Giudice nominava un perito (ma- Polla) il quale, svolte le indagini demandategli (omessi però l’esame di alcuni programmi perché deteriorati), al quesito se i programma fossero protetti da sistemi di sicurezza al fine di evitare la duplicazione rispondeva negativamente per la maggior parte dei programmi; al quesito se fossero copie degli originali messi a disposizione dall’imputato rispondeva affermativamente soltanto per due programmi (mentre per altri l’originale prodotto dall’imputato non corrispondeva, per lo più trattandosi di versione successiva); al quesito quali programmi fossero stati duplicati prima del 15.1.93 riferiva che non si poteva dare risposta sicura, peraltro evidenziando, sulla base dell’esame dei file dei dischi copia, le rispettive date di creazione. Il tutto come illustrato nella relazione ed analiticamente specificato in apposita tabella riassuntiva.

Con sentenza 9.7.99 il Tribunale decideva nei sensi su riportati in epigrafe.

Motivava escludendo, anzitutto, la sussistenza del reato di ricettazione (capo A), non essendo provato il reato presupposto, cioè l’abusiva duplicazione di programmi ad opera di terzi, dai quali poi l’imputato li avrebbe ricevuti.

Quanto all’addebito di cui al capo B), riteneva provata la duplicazione ad opera dell’imputato, confesso sul punto. Salvo due programmi, perché in originale (“EtherDisk 3.0” e “Flight Stick”).

Escludeva, però, l’antigiufidicità del fatto per la duplicazione di programmi posseduti in originale dall’imputato, sia per l’assenza del “fine di lucro richiesto dalla norma incriminatrice (rappresentato dall’intento di risparmiare il prezzo della licenza d’uso)”, sia per l’assenza di offesa al bene tutelato, offesa “legata alla abusiva creazione di canali di circolazione di programmi per elaboratore e non alla loro duplicazione da parte di chi li ha invece attinti da un canale ufficiale (sempre che, ovviamente, ciò non avvenga in vista della cessione delle copie duplicate: ma tale ultima ipotesi non è stata contestata nel caso di specie)”. La escludeva altresì per quelli che il perito non aveva potuto verificare a causa delle loro cattive condizioni di conservazione, nonché per alcuni programmi perché soltanto “dimostrativi”, o perché provenienti da dotazioni fornite in occasione di corsi di perfezionamento a cui l’imputato aveva partecipato.

Osservava, inoltre, che la condotta contestata non era penalmente sanzionabile se tenuta prima del 15.1.93, data dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 518/92, che aveva introdotto l’art. 171-bis nella L. 633/41; al riguardo, citava Cass. pen. s.u. 13.12.96 n. 1282, e altra sentenza conforme. Al riguardo, riteneva che, in mancanza di dati più certi, nella fattispecie l’unico elemento sicuro era costituito dalla data di originaria creazione dei programmi. Conseguentemente, per quelli creati prima del 15.1.93 vi era il dubbio (da risolvere in favore del reo) se la loro duplicazione fosse avvenuta prima o dopo la data suddetta; viceversa. era logicamente certo che quelli recanti una data di creazione successiva non potevano esser stati duplicati che dopo il 15.1.93. In questa situazione si trovavano soltanto 8 programmi, che venivano specificamente indicati nella motivazione e quindi nel dispositivo della sentenza – quale sopra riportato in epigrafe. In punto elemento soggettivo, il Tribunale osservava che il C. era un esperto in informatica e, pertanto, in grado di distinguere un programma originale da uno riprodotto nonché di rappresentarsi gli effetti dell’operazione di duplicazione; e riteneva sussistente il “fine di lucro” richiesto dall’art. 171-bis L. 633/41, fine “evidentemente rappresentato dall’intento (poi realizzato) di procurarsi la disponibilità dei programmi di cui si discute senza pagare il conispettivo della licenza d’uso”.

Riteneva la continuazione ex art. 81 c.p. “in virtù del fatto che tali duplicazioni risultano essere state eseguite in un periodo non eccessivamente prolungato……. , nonché dall’esistenza di una precisa finalizzazione, esplicitata dallo stesso imputato, all’uso delle stesse per il medesimo scopo (collezionismo e/o formazione professionale)”.

Escludeva la contestata aggravante, non essendo accertato se vi fosse coincidenza tra i programmi duplicati dall’imputato e quelli recanti il contrassegno della SIAE; peraltro, giudicava dovuto a quest’ultima il risarcimento del danno, non potendosi escludere la concreta ricorrenza di una illecita lesione dei diritti patrimoniali e/o non patrimoniali della SIAE, stante la sua qualità di ente esponenziale della categoria degli autori delle opere dell’ingegno tutelate anche dall’art. 171-bis L. 633/41; danno da liquidarsi in separata sede, poiché “a quanto ammonti poi in concreto il danno a questa arrecato a cagione della sua esponenzialità non è dato in questa sede conoscere”.
Proponeva appello il difensore dell’imputato.

Col primo motivo, non contestando quanto affermato dal primo Giudice sulla materiale condotta del C., sosteneva che la. stessa non corrispondeva all’ipotesi prevista e punita dall’art 171-bis L. 633/41 in quanto non era configurabile l’elemento psicologico del reato, cioè il dolo specifico consistente nel “fine di lucro”.

Affermava che dalla struttura della norma in questione si evince che hanno rilievo penale soltanto le condotte finalizzate, rispettivamente, al lucro e alla commercializzazione, non anche all’utilizzo personale. Per aversi “lucro” occorre un positivo accrescimento patrimoniale, mentre il “risparmio” rientra nel concetto di “profitto”, non anche in quello di lucro. La punibilità deve essere circoscritta ad attività commerciali in senso proprio, le quali soltanto raggiungono quel livello di danno per gli autori del software che giustifica la tutela penale. Nella direttiva comunitaria 250/91/CE, attuata nel nostro ordinamento con l’introduzione (anche) della norma in esame, non si fa menzione dello scopo dell’agente, ma si evidenzia che l’obiettivo di tutela è costituito dalla protezione del mercato dai pericolo rappresentato dalla commercializzazione di prodotti informatici non originali. La norma attuativa (art. 171-bis cit.) ha inserito il “fine di lucro” quale formula sintetica che rappresenta un recupero della prospettiva commerciale della duplicazione abusiva.

Citava giurisprudenza a conferma che il fine di lucro va considerato speciale rispetto a quello di profitto, e limitato all’intenzionale perseguimento di un vantaggio economico. Argomentava che “ragioni di omogeneità, sul piano del disvalore e della lesività, inducono a calare il fine di lucro principalmente in una attività commerciale, seppure organizzata in forma rudimentale e provvisoria”. E deduceva che per integrare il reato in questione occorre la presenza di almeno un atto commerciale come scopo della condotta; e che l’inerenza dello scopo di lucro ad un rapporto di scambio economicamente qualificato preclude la riconducibilità della mera finalità di risparmio al tipo legale descritto dalla norma: il lucro deve consistere in un quid pluris rispetto al mero risparmio di spesa.

Affermava che l’esame sistematico della normativa (direttiva comunitaria, legge delega, d. lgs. 518/92) consente di ricostruire l’intenzione del legislatore comunitario – e quindi nazionale – nel senso di aver voluto attribuire rilevanza penale alle sole condotte idonee a deviare il guadagno conseguente alla circolazione dell’opera dall’avente diritto ad un soggetto non legittimato.
Analogamente al consolidato orientamento giurisprudenziale adottato per le diverse forme di pirateria, il fine di lucro non è compatibile con la duplicazione realizzata per uso personale (Cass. 25.9.1989, Riv. penale 1990, 666). Nella sentenza 26. 11.96 del Pretore di Cagliari si chiarisce che la duplicazione di programmi a fine di lucro e la detenzione di programmi abusivamente riprodotti a scopo commerciale costituiscono un’anticipazione del momento consumativo del reato rispetto alle altre fattispecie individuate dallo stesso articolo 171-bis (importazione, vendita, distribuzione e locazione): la duplicazione e la detenzione sono reati di pericolo, che acquistano rilievo penale in tanto in quanto siano finalizzate rispettivamente al lucro ed alla commercializzazione.
Riaffermava che il termine “lucro” indica esclusivamente un guadagno, un accrescimento patrimoniale. Esso non coincide con il termine “profitto”, che ha un significato più ampio comprendente tanto l’accrescimento quanto la mancata perdita patrimoniale, ossia la mancata spesa che un soggetto dovrebbe affrontare per ottenere un bene; inoltre, giurisprudenza e dottrina hanno nel tempo ampliato il concetto di profitto fino a comprendervi ogni utilità, anche non patrimoniale. Confondere il lucro con il profitto significa attuare una illecita estensione analogica in malam partem. Il legislatore, inserendo nella fattispecie di cui all’art. 171 bis L. 633/41 il dolo specifico costituito dal fine di lucro cui deve tendere la riproduzione abusiva, ha voluto escludere dall’ipotesi di reato ogni motivazione ulteriore e diversa . e quindi arche lo scopo di profitto nella parte in cui esso si differenzia dalle scopo di lucro.

L’appellante ricordava, a conferma di quanto sopra, che nel progetto di legge < <>> di riforma della materia del diritto d’autore era prevista la sostituzione delle parole “a fini di lucro”, contenute nel comma 1 dell’art. 171 bis della legge n.633/41, con le parole “per trarne profitto”, nonché l’aggiunta, dopo le parole “a scopo commerciale”, delle parole “o imprenditoriale”.

Sosteneva che con ciò si intendeva intensificare l’azione repressiva, da un lato ampliando i confini del dolo specifico, e dall’altro eliminando la limitazione del fine prettamente commerciale cui lo stesso deve tendere. Questa intenzione del legislatore avvalorava quanto sopra detto sulla differenza intercorrente tra lo scopo di lucro e lo scopo di profitto, giacché, se così non fosse, il legislatore non avrebbe avvertito la necessità di modificare il testo della disposizione penale.

Ciò posto, l’appellante osservava che, nel caso di specie, l’imputato deteneva alcune copie di programmi chiuse in un armadio, inutilizzate da tempo, da lui stesso duplicate in un solo esemplare. Pertanto, era evidente la carenza dello scopo di lucro, dal momento che i programmi in questione furono duplicati una sola volta e in un unico esemplare (non già “in serie”), al solo fine di collezione e di acculturamento tecnico personale; mentre non furono mai destinati ad alcuna forma di commercializzazione, non risultando, infatti, essere stato compiuto alcun atto neppure astrattamente idoneo a porre sul mercato tali copie.

Aggiungeva che, trattandosi di reato di pericolo, non è possibile anticipare la soglia di punibilità della condotta oltre il limite posto dalla stessa norma, altrimenti si avrebbe la punizione di “atti idonei a compiere atti idonei a…”.

In conclusione, mancava l’elemento soggettivo del reato, costituito dallo scopo di lucro.

Con un secondo (subordinato) motivo lamentava l’ingiustizia della ordinanza di rigetto dell’eccezione di difetto di legittimazione attiva della SIAE, nonché della sentenza per errato riconoscimento della legittimazione della predetta a costituirsi parte civile e per malgoverno delle risultanze istruttorie, difettando la prova di un danno in capo alla SIAE.

Motivava che la predetta è legittimata a costituirsi parte civile solo in relazione alla messa in commercio di opere illecitamente riprodotte; che a tal fine è necessario che la SIAE possa essere qualificata soggetto al quale il reato ha recato danno; che nella fattispecie non le era stato arrecato alcun danno, perché in materia di software il contrassegno SIAE non è obbligatorio; che non esisteva quindi alcun interesse patrimoniale preesistente della SIAE che ne legittimasse la costituzione quale parte civile.

Ribadiva che, pur essendo affidata alla SIAE la tenuta del registro pubblico dei programmi, è potestà degli “autori” avvalersi di tale iscrizione; dunque, in tanto essa può avere un ruolo in tanto in quanto si tratti di abusiva circolazione di programmi registrati presso di lei.

La SIAE, eventualmente, poteva essere qualificata come persona “offesa”, ma non “danneggiata” dal reato. Contraddittoriamente la sentenza affermava, da un lato, che mancava la prova che le duplicazioni avessero avuto ad oggetto programmi contenuti su supporti contrassegnati dalla SIAE, e, da un altro lato, che non poteva essere esclusa la concreta ricorrenza di una illecita lesione dei diritti di quest’ultima. Ma se il Giudice non ritiene raggiunta la prova che il reato ha cagionato un danno alla persona offesa, deve mandare assolto l’imputato dalla generica condanna al risarcimento del danno.

Con il terzo (ed ultimo) motivo l’appellante chiedeva una riduzione della pena.

Censurava il giudizio del Tribunale sul grado di capacità a delinquere desunto dal fatto che il reato era stato commesso mediante strumenti il cui uso richiedeva particolari capacità tecniche. Sosteneva che tale affermazione era errata perché non basata sui precedenti dell’imputato, bensì sulla condotta a lui attribuita, condotta che non denotava particolari attitudini delinquenziali, giacché chiunque sia in grado di accendere un personal computer e di compiere le più banali operazioni è in grado di eseguire il comando di duplicazione di un programma; operazione semplice e facile da imparare. Aggiungeva che, avendo il perito riconosciuto che l’imputato non aveva eliminato le protezioni di cui alcuni programmi erano forniti, un soggetto dotato di particolare capacità a delinquere (che non coincide certo con una attitudine e familiarità con l’informatica) non avrebbe lasciato nei programmi protezioni che li avrebbero resi inservibili e soprattutto non commercializzabili. Ancora una volta, quindi, emergeva l’assenza dello scopo di lucro, unitamente alla inconsistenza dei presupposti alla base del giudizio ex art. 133 c.p.
Infine, occorreva considerare la natura dei programmi duplicati, per lo più videogiochi o applicazioni di altri programmi, tutti di scarso valore commerciale.

Nell’odierna udienza, svoltasi in pubblico dibattimento in presenza dell’imputato e del suo difensore nonché di quello della parte civile,
– il P.G. ha concluso per la conferma dell’appellata sentenza,
– la difesa della parte civile ha concluso come da memoria allegata al verbale, insistendo per la conferma della sentenza, con vittoria di spese come da parcella, ed ha prodotto copia della sentenza 12.10.2000 n. 983 della II sez. penale della Cassazione,
– la difesa dell’imputato ha concluso per l’accoglimento dei motivi di gravame, aggiungendo la richiesta subordinata di declaratoria di prescrizione dei fatti-reato relativi ai programmi diversi da quello “Alter Dark Screen Saver”.

La Corte osserva:

Va premesso che:
ai sensi dell’art. 597 c. 1 c.p.p., l’esame da parte di questa Corte è limitato al capo di condanna e, per quanto concerne gli elementi costitutivi del reato a cui tale capo si riferisce, al solo punto riguardante l’elemento soggettivo – in particolare: il dolo specifico; i fatti per cui vi fu condanna in prìmo grado vennero commessi nella vigenza dell’art. 171 -bis L.633/41 (come introdotto dall’art. 10 D.Lgs. n.518/92), prima delle modifiche apportate con D.Lgs. n.205/96 e con L. n. 248/00;

le copie dei programmi abusivamente duplicati erano – come ritenuto dal Tribunale e non contestato da alcuna parte – destinate ad uso personale per scopo di collezionismo e/o formazione professionale.

Ciò premesso, è evidente la centralità della questione se nel “fine di lucro”, quale richiesto dal citato art 171-bis nel testo vigente all’epoca dei fatti, possa essere compreso quello di realizzare un “risparmio”, e precisamente, come affermato dal Tribunale, “di procurarsi la disponibilità dei programmi di cui si discute senza pagare il corrispettivo della licenza d’uso”. Affermazione su cui concordano il Procuratore Generale e il difensore della Parte civile, mentre l’appellante sostiene, con gli argomenti sopra ricordati, che per realizzare un fine di lucro non basta un “risparmio” di spesa, ma occorre un positivo accrescimento patrimoniale.

Ad avviso della Corte, il primo motivo di gravame è fondato e va accolto, con conseguente assorbimento dei successivi.
A parte che nel lessico comune (cfr. dizionari della lingua italiana) il lucro è indicato, anzitutto e soprattutto, come sinonimo di guadagno, è qui preminente stabilire con quale significato e portata venga usato il vocabolo lucro nell’ordinamento giuridico e, in particolare, nella materia specifica. E’ pacifico che nel nostro ordinamento penale il concetto di lucro è più ristretto di quello di profitto. Per tutte, vedasi Cass., sez. II, 9.6.1981 (in Cass. pen. 1983, 316): “La nozione di profitto prevista dall’art. 648 c.p. comprende non solo il lucro , ma qualsiasi utilità, anche non patrimoniale, che l’agente si proponga di conseguire”.

Viceversa, il fine di lucro “deve necessariamente essere interpretato come fine di trarre un guadagno economicamente apprezzabile” (cosi – in tema di gioco d’azzardo art. 721 c.p. – Cass. pen. sez. III, 6.5.1998, n. 7144, in Giust. pen. 1999, II, 79).

Nell’art.62 n. 4 c.p. (come modif con L. 7 2.90 n. 19) il termine “lucro” è collegato al verbo “conseguire”. Insegna la S.C. che i “motivi di lucro”, cui si riferisce detta norma, vanno intesi “in termini di volontà di acquisire, quale risultato deltazione delittuosa, un vantaggio patrimoniale” (v. Cass., sez. V, 14.11.90, in Giust. pen. 1991, II, 457). Pare corretto ritenere che “conseguire” o “acquisire” siano verbi congrui al raggiungimento di un risultato “in positivo” (cioè un accrescimento patrimoniale), piuttosto che ad evitare una conseguenza “negativa”.

Quanto alla specifica materia in esame, esorbita dall’ambito della presente pronuncia, in quanto riguardante fatti realizzati vigente l’art. 171-bis L.633/41 nella formulazione anteriore alla modifica apportata con L.248/00, stabilire se nello scopo di “trame profitto”, di cui all’attuale testo della norma, rientri una condotta come quella oggetto del presente processo.

Peraltro, la modifica introdotta da quest’ultima Legge non è priva di rilevanza, in quanto conferma una consapevole distinzione, da parte del legislatore, tra i concetti di “lucro” e di “profitto”.

Il P.G. ed il difensore della P.C. all’odierna udienza hanno sostenuto essersi trattato di modifica “interpretativa” (e quindi “retroattiva”) del dolo specifico richiesto dalla previgente norma. Ma tale tesi appare smentita. dai lavori preparatori, laddove, ad esempio, la Camera dei Deputati respinse l’emendamento Saraceni 14.3 che proponeva di sostituire, nel testo del “nuovo” art. 171-bis formulato in Commissione, l’espressione “per trarne profitto” con l’espressione “a fini di lucro”, illustrandone con un esempio la differenza, essendo il “profitto” concetto più ampio del “lucro” (v. resoconto stenografico della seduta assembleare n. 744 del 20.6.00). Inoltre, appare smentita dal confronto dell’art. 171-bis con 1’art171-ter: nel testo anteriore alla recente modifica entrambi richiedevano, per la sanzionabilità penale dell’abusiva duplicazione delle opere rispettivamente considerate, il dolo specifico del fine di lucro; mala L.248/00, nel sostituire detti articoli, ha conservato il requisito del “fine di lucro” nell’art.171-ter, comma 1, mentre nell’art.171-bis lo ha sostituito col fine di “trarne profitto”; orbene, non potendosi presumere un uso atecnico o approssimativo dei vocaboli da parte del legislatore – specialmente quando, come nel caso, contestualmente riformula due norme -, è indubbiamente indice di una volontà innovatrice, non già meramente interpretativa, sostituire il “profitto” al “lucro” in una soltanto delle stesse.
Del resto, la dottrina più attenta ha subito avvertito che la predetta modifica ha ampliato l’ambito del dolo specifico, così estendendo le ipotesi di reato punite ex art. 171-bis.

Deve dunque concludersi che, per realizzare la fattispecie prevista da tale articolo, nella formulazione vigente all’epoca dei fatti per cui è causa, occorreva un fine di lucro da intendersi in senso più ristretto del fine di profitto.

Ed allora. ben può valere quanto già sopra rilevato circa la delimitazione del concetto di luce. come conseguimento di un positivo accrescimento patrimoniale. Conseguimento bensi realizzabile anche in modo non immediato e diretto, come nei casi trattati da Cass. civile sez. I, 27. 11.92, n. 12680, e da Cass. civ. sez. I, 1.9.97, n. 8304, laddove, peraltro, ciò derivava da una utilizzazione nell’ambito di un processo produttivo d’impresa – ipotesi alla quale risulta del tutto estraneo il caso di cui al presente processo.

Giova ricordare che prima della ricordata modifica, con specifico riguardo all’art 10 D.Lgs. n. 518 del 1992 (che introdusse l’art. l71-bis nella L. 633/41) si è affermato che “l’elemento soggettivo del dolo specifico, di cui alla previsione “a fini di lucro”, deve essere inteso in senso stretto, vale a dire come intenzione dell’agente di conseguire uno specifico vantaggio nell’ambito di una attività di natura commerciale e non già semplicemente come volontà di risparmio del costo d’acquisto del software”: v. Pretore Milano, 8.3.99, in Foro ambrosiano 1999, 212. Inoltre, v. Pretore Cagliari 3.12.96, in Diritto d’autore, 1998, 221, secondo cui, in tema di art. 171-bis, il termine lucro va inteso soltanto come “accrescimento positivo del patrimonio”, non anche come “non diminuzione dello stesso”.

Appare altresì pertinente considerare anche norme riguardanti materia simile o affine, in quanto valgano a delineare la nozione di “fine di lucro”. Invero, tale fine, richiesto dall’art. 171-bis nel testo vigente all’epoca dei fatti in esame, deve, quantomeno per analogia, intendersi nello stesso senso in cui lo fu il “fine di lucro” richiesto dalla norma che puniva “chiunque abusivamente duplica o riproduce a fini di lucro, con qualsiasi procedimento, opere cinematografiche destinate al circuito cinematografico o televisivo…” (art. 1 L. 20.7.85 n. 400). In materia, la S.C. ha affermato che “la riproduzione di opere cinematografiche destinate al circuito cinematografico o televisivo, effettuata ad uso esclusivamente personale e privato, senza fini di lucro e senza diffusione delle opere così riprodotte, non integra il reato di cui all’art. 1 L 20 luglio 1985 n. 400 per difetto del dolo specifico” (v. Cass. set. III, 25.9.89, in Cass. pen. 1990, I, 1131). Orbene, essendo innegabile che la suddetta riproduzione viene comunemente operata al fine di “risparmiare” sul prezzo (comprendente la quota riscossa dalla SIAE) del biglietto d’ingresso in una sala cinematografica – anzi, di più biglietti, potendo l’opera essere visionata più volte dall’abusivo riproduttore -, il principio su affermato confligge con la tesi che il mero “risparmio” sia sufficiente ad integrate il fine di lucro.

Ciò trova riscontro nell’art. 171-ter, comma 1, nell’attuale formulazione ex L. n.248/00, il quale sanziona penalmente le condotte ivi previste (tra cui l’abusiva duplicazione di determinate opere dell’ingegno) “se il fatto è commesso per uso non personale” da un soggetto che agisce “a fini di lucro”. Occorrendo, per la punibilità dell’abusiva duplicazione entrambi i predetti requisiti appare evidente la volontà legislativa di non ravvisare il fine di lucro in uin ratto commesso per mero uso personale, imponendone la ricerca solo quando la duplicazione sia fatta. ad uso non personale; e ciò benché sia innegabile (né poteva sfuggire al legislatore) che, in concreto, tali duplicazioni ad uso personale sono compiute al fine di “risparmiare” la spesa d’acquisto del prodotto “regolare”. Il che vale a delimitare il concetto di “lucro”, in quanto la destinazione ad uso personale appare porsi in rapporto di esclusione rispetto al fine di lucro

Vero è che l’art. 171-bis non ha (né aveva) l’inciso “se il fatto è commesso per uso non personale”. Ma ciò non toglie che la rilevata antinomia debba esplicare i suoi effetti nell’interpretare il concetto dei “fini di lucro” che l’art. 171-bis richiedeva per la punibilità dei fatti ivi contemplati.
Alla stessa conclusione porta l’esame della Legge 5.2.1992, n. 93, contenente norme a favore delle imprese fonografiche, la quale prevede – a favore degli autori e dei produttori di fonogrammi, dei produttori originari di opere audiovisive e dei produttori di videogrammi, e dei loro aventi causa un “compenso per la riproduzione privata per uso personale e senza scopo di lucro”. Ai fini della presente decisione, incentrata sulla determinazione del concetto di “fini di lucro”, non importa che la predetta legge, al primo comma del’art. 3, stabilisca. che resta fermo quanto previsto dalla L. 633/41. Rileva, invece, il fatto che essa esplicitamente riconosca la possibilità di una “riproduzione privata per uso personale e senza scopo di lucro”. Anche in questo caso, essendo notorio che con tale riproduzione il privato “risparmia” una spesa, deve dedursi che la legge, ammettendo una “riproduzione privata per uso personale e senza scopo di lucro”, non ha inteso comprendere l’intento di “risparmio” nello scopo di “lucro”. Né giova opporre che, a fronte del risparmio del privato, viene meno un legittimo lucro degli aventi diritto; infatti, proprio in tale previsione, la medesima norma stabilisce esser dovuto agli autori ed ai produttori sopra menzionati, nonché ai loro aventi causa, un compenso costituito da “una quota sul prezzo di vendita al rivenditore dei nastri o supporti analoghi di registrazione audio e video (musicassette, videocassette e altri supporti) e degli apparecchi di registrazione audio”; cioè, appunto, dei mezzi utilizzabili dai privati riproduttori per uso personale.

Tutto ciò conferma che il fine di lucro va inteso come scopo di conseguire un positivo guadagno. Il patrono della parte civile SIAE ha oggi prodotto copia della sentenza Cass. pen., sez. II 12.10.2000, n. 983, in procedimento per reati p. e p. dagli art. 648 c.p. e 171-bis L.633/41. Ma non pare che tale pronuncia sorregga la. tesi della parte civile, per quanto riguarda la determinazione del concetto di “lucro”. Infatti, disattendendo il motivo di ricorso denunciante vizio motivazionale con riferimento alle valutazioni operate circa lo scopo della detenzione del materiale sequestrato (programmi per elaboratore abusivamente duplicati;. la Suprema Corte ha osservato escludere, infine, la lamentata carenza argomentativa circa la destinazione alla commercializzazione del materiale sequestrato, posto che la Corte di merito ha dato comunque conto degli elementi (notevole quantità e ingente valore dei programmi, pregressa gestione di un negozio per la commercializzazione di software, precarietà delle condizioni economiche dello imputato) sui quali ha fondato il convincimento che non trattavasi di detenzione a uso personale”. Come si vede, la pronuncia oltre a riguardare non l’abusiva duplicazione di programmi per elaboratore bensì l’ipotesi successivamente prevista nel medesimo comma 1 dell’art. 171-bis – non ha affrontato esplicitamente il problema interpretativo del “fine di lucro”. Anzi, visto che nella seconda parte del primo periodo di detto articolo sono punite varie specie di azioni commesse “ai medesimi fini” prima enunciati, cioè (all’epoca dei fatti) “a fini di lucro”, si potrebbe addirittura ritenere che la S.C. abbia implicitamente riconosciuto che i fini di lucro non ricorrono in caso di “uso personale”, non “commerciale” (peraltro, si deve riconoscere che probabilmente si è limitata ad esaminare se fosse sufficientemente motivato il giudizio di sussistenza della “detenzione a scopo commerciale”).

In conclusione, la Corte ritiene che il fine “di lucro”, integrante il dolo specifico richiesto dall’art. 171 bis L. 633/41 vigente all’epoca dei fatti, non comprenda il fine di mero “risparmio” di spesa.

E poiché, nel caso concreto, il Tribunale ha accertato che i fatti furono commessi dall’imputato al solo fine “di procurarsi la disponibilità dei programmi di cui si discute senza pagare il corrispettivo della licenza d’uso” – ribadendo (nell’affermare la continuazione ex art. 81 c.p.) che le duplicazioni dei programmi erano destinate a personale scopo di “collezionismo e/o formazione professionale” -, va esclusa la, sussistenza del dolo specifico richiesto dall’art 171-bis L. 633/41.

Occorre incidentalmente aggiungere che non si ritiene di poter derubricare i fatti nella meno grave ipotesi di cui all’art. 171 L.633/41, per cui è sufficiente il dolo generico.

Avendo il Tribunale assolto l’imputato dagli addebiti di abusiva duplicazione di programmi quando questa condotta risultava (o, meglio, quando v’era il dubbio che fosse stata) effettuata prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 518/92 e, quindi, dell’art. 171-bis L. 633/41, resta ormai definitivamente statuito che tale duplicazione non poteva neppure integrare la “minore” fattispecie penale di cui al già previgente art. 171 L. 633/41. Ipotesi, questa, che era stata – tra contrasti sostenuta anche da Cass. pen. sez. III, 24.11.86, ma che fu esclusa da Cass. pen. s.u. 13.12.96 n. 1282 e da Cass. pen. sez. III 4.7.97, n. 8236, ricordate nella motivazione dell’appellata sentenza.

Né può ritenersi che, avendo il D.Lgs. n. 518/92 incluso i programmi per elaboratore fra le opere letterarie protese a norma della Convenzione di Bema, ratificata e resa esecutiva in con L n. 399/78, ed avendo inserito all’inizio dell’art. l71 L. 633/41 le parole “Salvo quanto previsto dall’art 171-bis”, dalla data di entrata in vigore del predetto D.Lgs. non valgano più i principi affermati nelle due sentenze da ultimo citate. In esse, invero, l’affermazione che il fatto non era preveduto dalla legge come reato risulta fatta avendo riguardo non soltanto all’oggetto, bensì anche alle caratteristiche della condotta. – profilo, questo, che è rimasto immutato. Ben inteso, ciò è stato affermato e vale con riferimento alla specifica ipotesi della duplicazione di programmi per elaboratore – che è quella rilevante nel presente processo (resta invece salva la questione, esulante dall’attuale compito di questa Corte, della sanzionabilità ex art 171 L. cit di altre condotte previste nell’art.171-bis, qualora siano coincidenti con quelle dell’art. 171 e non punibili ex art. 171-bis per difetto di dolo specifico).

Inoltre, non va trascurato che l’art. 16 L. 248/00 configura un illecito amministrativo a carico di”chiunque abusivamente….duplica….un’opera dell’ingegno tutelata dalla normativa sul diritto d’autore e sui diritti connessi al suo esercizio….”. Ciò riguarda anche i programmi per elaboratore, come si evince sia dal già ricordato loro inserimento fra le opere letterarie protette, sia dall’espresso richiamo (di cui si dirà) all’art. 171- bis. Il predetto art 16 – peraltro non applicabile retroattivamente (art. 1 L. 689/81) – non richiede alcun fine specifico. La dottrina ha rilevato il carattere “residuale” di tale norma, giacché essa contiene la riserva: “purché il fatto non costituisca concorso nei reati di cui agli art. 171, 171-bis, 171-ter,…ecc.”. Ma, poiché il dire “non costituisca concorso nei reati” è cosa diversa dal dire “non costituisca i reati”, detta riserva è testualmente limitata all’ipotesi del concorso con altri in taluno dei reati di cui agli indicati articoli. E’ da notare altresì che, a differenza.

dall’art. 174-bis (introdotto nella L. 633/41 dall’art. 8 L. 248/00), il quale stabilisce sanzioni amministrative per la violazione delle disposizioni previste “nella presente sezione” (comprendente gli art. da 171 a 174), l’art. 16 non contiene la, riserva: “Ferme le sanzioni penali applicabili,…” e, pertanto, si pone in rapporto di alternativa. e non di aggiunta, rispetto alle norme penali. Ne consegue che, se si vuole riconoscere valore effettivo alla norma dell’art. 16 – sempre avendo riguardo alla sola fattispecie che qui interessa – o si limita la portata della norma ad assolutamente improbabili casi di duplicazione colposa (ma ciò. se si ritenesse la duplicazione in questione già compresa nell’art. 171, colliderebbe con la conservazione della norma di cui al primo comma dell’art. 172. che prevede una sanzione amministrativa “se i fatti preveduti nell’articolo 171 sono commessi per colpa”), oppure, più fondatamente, si riconosce che essa, nella parte in cui fa preciso riferimento alla abusiva duplicazione di un’opera dell’ingegno, si pone in rapporto di specialità rispetto a quella dell’art. 171, su di questa prevalendo ex art. 9, c. 1, L. 689/81 (mentre nel rapporto con l’art. 171-bis, ove ne ricorrano gli estremi, è evidente la specialità di quest’ultimo rispetto all’art. 16).

In conclusione, l’impugnata sentenza va riformata quanto al capo di condanna, assolvendo C. F. perché il fatto non costituisce reato.

Conseguentemente, restano travolte anche le statuizioni civilistiche.

P.Q.M.

visti gli artt. 593 e seg.ti, 605 c.p.p.,
in riforma dell’appellata sentenza, assolve C. F. anche dal reato per cui fu condannato in primo grado, perché il fatto non costituisce reato.
Fissa termine di giorni 40 per il deposito della sentenza.
Torino, 13.12.2000.

Il Presidente est.(G. Witzel)

Depositato in Cancelleria
oggi 15 gennaio 2001

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